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29 Gennaio 2017

Riphagen (Pieter Kuijpers)

Con un saluto galante ed un levarsi il cappello, torno in punta di piedi sul pulpito di Philmosophy. E con una puntata speciale. Il 27 gennaio è stato il Giorno della memoria, e per omaggiare tal ricordo, abbiamo deciso di proporvi un appuntamento domenicale e di assoluta riflessione. Quest’oggi porgo sul ripiano un film passato quasi in sordina, distribuito sottilmente, ma reso al grande pubblico dalla piattaforma Netflix. Quest’oggi parliamo di una pellicola che mi ha commosso ed ha lasciato il suo graffio nella mia mente: Riphagen, di Pieter Kuijpers.


La trama è molto semplice. Questo è un film biografico di Bernardus Andreas (Dries) Riphagen, criminale tedesco che collaborò con gli uomini di Hitler nell’eccidio ebreo. Non aggiungo nulla della sua biografia, che potrete trovare completa su wikipedia, perché altrimenti rovinerei il gusto della visione, ma posso senz’altro aggiungere qualche particolare “artistico”.

Il film si veste d’intrigo, fin dall’inizio, permettendo allo spettatore, magari anche ignaro della biografia del Riphagen, d’immedesimarsi e di perdersi in un continuo andirivieni di informazioni, soggiogamenti, promesse ed astute menzogne. Ed in questo tamburellante eterno ritorno della libertà scambiata per la costrizione dei propri diritti civili opera Riphagen che, nella sua fredda ed accogliente maniera, soggioga lo spettatore in un caldo e raggelante abbraccio spinoso. Non sai mai cosa accadrà dopo, non sai chi sia il buono e chi sia il cattivo. Tutto è avvincente e niente è scontato. Tutto è così reale da sembrare irrealmente reale.

Tecnicamente il film regge la distanza, non annoiando quasi mai e non permette rimpianti di trama: o la segui, o ti perdi clamorosamente. Soprattutto nel grande intreccio centrale. Non è sempre facile essere vigili, ma Riphagen necessita di pensiero ed il pensiero necessita di concentrazione. Gli ambienti sono ben ricostruiti, così come il periodo storico, la pressione mediatica ed il clima mortalmente seducente.

Riphagen è un film che ti graffia l’anima e ti corrode i sentimenti. Lascia un segno; ed è questo quello che deve fare un film, no? Lasciare un segno di sé.

3 Giugno 2016

Orizzonti di gloria (Kubrick)

Cari lettori,
dopo il vuoto della scorsa settimana, Philmosophy torna con un altro capolavoro della storia cinefila. Un film che racconta la prima guerra mondiale, che racconta gli ordini dei grandi capi e la morale dei soldati. Se La sottile linea rossa di Malick è il capolavoro del genere in ambito moderno, questa pellicola è sicuramente sua madre – o qualcosa di molto simile. Per la regia di Stanley Kubrick, un film del 1957: Orizzonti di gloria.


Prima guerra mondiale, 1916, fronte occidentale. La prospettiva di una promozione in caso di successo vince le perplessità del generale francese Mireau sull’opportunità di sferrare un attacco – richiesta dall’altro generale Broulard, suo superiore – al famigerato “formicaio”, strategica e munitissima postazione in mano ai tedeschi, posta su una collina difficilmente espugnabile. Per caricare i soldati, il generale Mireau passa personalmente in rassegna le truppe sistemate in interminabili trincee, cercando di spronarle e motivarle dopo mesi di logorante stallo: in tale occasione schiaffeggia un soldato in trance da esplosione ed impaurito. Il comando delle operazioni di attacco al “formicaio” è affidato al colonnello Dax, fermamente contrario ad un’azione che avrà un prezzo umano altissimo ed un risultato alquanto incerto, ma che si vede costretto ad obbedire. Come previsto, l’attacco è un fallimento totale. La corte marziale è convocata per direttissima.


Tecnicamente non si può nemmeno discutere di questa pellicola. “Orizzonti” (abbreviazione del titolo) è sicuramente un capolavoro di Kubrick, forse il suo primo. Tratta un argomento difficile quanto è difficile tecnicamente girare un film di guerra. La carrellata iniziale in piano sequenza che penetra la trincea e crea una descrizione dettagliata dell’animo dei soldati lì accampati da mesi ha un valore immenso ed inestimabile. Tutte le inquadrature sono studiatissime, ponderate e di impatto importante.

Le tematiche sono, oltre alla regia mozzafiato, il perno assoluto della pellicola. “Orizzonti di gloria” è un film che racconta uno spezzone di guerra, che mette in mostra uomini che odiano la guerra costretti a fare la guerra, soldati che per salvarsi la vita disattendono un ordine superiore e vengono puniti. Permette allo spettatore di capire quanta differenza ci sia fra lo stato maggiore e il soldato trincerato, fra chi deve uccidere per ordine e chi quell’ordine lo elargisce da dietro una scrivania. Mette in risalto, quindi, l’insensatezza dell’atto bellico in quanto tale. Esalta il temperamento e la psicologia dell’uomo che, anche a conoscenza della verità, disattende sempre l’amor del prossimo per l’amor del proprio e si ripara sotto vane scuse e situazioni, perché ben conscio del suo errore morale, ma altrettanto ben conscio della sua promozione sociale.

Inoltre “Orizzonti” doveva avere un finale addolcito e non duro e punitivo come quello che Kubrick aveva in mente. La produzione aveva spinto per avere un finale “buono” e lo aveva ottenuto, finché direttamente Kirk Douglas (che interpreta il colonnello Dax) non si impose e non spronò Kubrick a lasciare il suo finale facendogli così ottenere, appunto, il final cut che tutti conosciamo.

È quindi un film dalle tematiche caldissime e sensibilissime, soprattutto nell’anno d’uscita, il 1957.
Per gli amanti del genere che non vogliono una pallottola al secondo, esplosioni come se piovessero e trame di puro istinto, è una pellicola da recuperare e da vedere assolutamente.

Orizzonti di gloria è un capolavoro kubrickiano, forse il suo primo, da avere sullo scaffale e ben saldo nella memoria dell’uomo.

20 Maggio 2016

2001: Odissea nello spazio (Kubrick)

Cari lettori,
se con l’ultimo appuntamento di Philmosophy abbiamo discusso del capolavoro di Tarantino, in questo andremo a parlare di uno dei capolavori storici del cinema. Forse l’unico film a precederne il libro, un’avventura ai confini della conoscenza e della coscienza umana: un film che fissa l’obiettivo di ogni nuovo giovane regista e che è incastonato nella memoria storica dell’uomo. Per la regia di Stanley Kubrick, un film del 1968: 2001: Odissea nello spazio.


La trama di 2001 (abbrevierò così il titolo) è più fittissima, tanto da non permettermi di specificarla come al solito prendendo spunto dai bei sunti di wikipedia o di altri siti cinefili, pertanto andrò ad illustrarvi, di mio pugno, in modo succinto e rapido, lo svolgersi del film.

La pellicola è provvista di quattro grandi capitoli (cosa che si ricollega, guarda caso, allo stile tarantiniano nel girare i propri film) che, in un susseguirsi assai logico e, diremmo quasi sillogistico, costruiscono l’architrave del racconto di Kubrick e Clarke. Andiamo a vederli, brevemente:

– L’Alba dell’Uomo
: in questo capito Kubrick e Clarke ci raccontano la nascita dell’uomo, secondo 2001. Siamo nell’Africa di quattro milioni di anni fa: un gruppo di ominidi, guidati da un capo, sopravvive a fatica in un ambiente arido e ostile. Un giorno, davanti alla loro grotta appare misteriosamente un grande monolito nero; gli ominidi, venendovi a contatto, imparano inspiegabilmente a usare gli strumenti per cacciare gli animali e ad estendere il proprio territorio aggredendo i nemici.

– TMA 1: nel secondo capitolo, Kubrick e Clarke, ci raccontano la riscoperta del grande monolito nero avvenuta nel 1999 che, misteriosamente, rimase inerte sulla Luna per quasi tre milioni di anni.

– Missione Giove: se nei primi due capitoli la pellicola acquista sapore e gusto, in questo terzo acquisisce sostanza e forma. Kubrick e Clarke ci raccontano gli avvenimenti durante una missione gioviana: nel 2001, un gruppo di cinque astronauti, di cui tre in stato di ibernazione, è in viaggio a bordo dell’astronave “Discovery One”, diretta verso Giove e governata da un supercomputer chiamato HAL 9000, dotato di una sofisticata intelligenza artificiale che lo rende valido interlocutore degli esseri umani a bordo (le macchine della serie HAL sono note per non aver mai commesso errori di nessun tipo).

– Giove e Oltre l’Infinito: nel quarto capitolo la pellicola diviene completa, perfetta ed avveniristica. Bowman arriva in orbita intorno al pianeta gigante avvistando un nuovo, gigantesco monolito nero. Prova allora ad uscire ed avvicinarsi con una capsula: una panoramica del sistema gioviano con i satelliti allineati e il monolito pare inghiottire l’esploratore. Una scia luminosa multicolore cancella lo spazio conosciuto. Bowman e la capsula sono accelerati a velocità sconosciute. Scorci di stelle, nebulose, sette ottaedri e panorami di terre sconosciute si alternano fino al materializzarsi della capsula di Bowman in una stanza chiusa, arredata in stile Impero.


Inutile dire che questo film va guardato ed analizzato secondo la propria visione delle cose. È complesso dare un giudizio oggettivo, salvo per il lato tecnico, sullo sviluppo di questa pellicola. 2001 è l’introspezione di Kubrick e Clarke rispetto all’essere umano e forse non solo. 2001 è il manifesto filosofico dell’escatologia, è la bandiera che alta sventola la nostra non-conoscenza dello scibile. Noi, inteso come razza umana e, forse meglio, come ragione umana, conosciamo una piccolissima parte del conoscibile all’uomo in quanto ente dell’esserci heideggeriano. Noi siamo stati gettati in questo luogo ed in questo spazio, costretti a viverci e a sfruttarlo secondo le nostre più svariate volontà, fra cui quella di potenza che, probabilmente, le racchiude tutte in un abbraccio mortale. E siccome siamo stati gettati diveniamo esseri che sono-qui: esser-ci. E grazie a ciò subito ci proponiamo come centro dialettico e logico del mondo, della nostra proiezione del mondo, e poi del cosmo (dell’ordine secondo uomo dell’universo).

Kubrick e Clarke altro non fanno che prendere queste basi per costruirvi sopra la loro superstizione basandosi anche su teorie e pensieri di filosofi a loro passati. 2001 è intriso di filosofia: dall’escatologia alla volontà di potenza, dal velo di Maya al concetto di intelligenza artificiale, dal esser-ci all’oltreuomo.

Non credo abbia molto senso, anche se il fine di queste pagine è di unire il cinema alla filosofia, che io mi metta a spiegare questi concetti che, fra l’altro, sono abbastanza complessi da trattare senza uno scambio vivace di idee ed impressioni, ma possiamo andare oltre. Lasciando comunque la bellezza della scoperta del film, possiamo analizzare due o tre passi che mi hanno impressionato a livello intellettuale e di pensiero filosofico:

– È lucidamente impressionante come Kubrick e Clarke abbiano volutamente esplicitato, nel primo capitolo, l’evoluzione umana. Se di primo acchito potremmo dire che nulla si discosta dall’evoluzionismo darwiniano (che poi è da riscoprire, attenzione, nelle stesse pagine e parole di Darwin), perché si vede chiaramente l’evoluzione dalla clava all’intelligenza creativa, all’astronave; di seconda battuta potremmo invece affermare senza tema di smentita che, i due, volessero invece focalizzare l’attenzione sul ruolo del monolito e sulla metafora dello stesso. Lucidamente mettono a confronto l’ominide con l’austera tecnologia e freddezza del monolito alieno che, d’un tratto, eleva la tecnologia ominide – la clava – in tecnologia umana – l’astronave. Non è da lasciar passare in secondo piano, ovviamente, il rimando alle teorie degli antichi astronauti che avrebbero dato vari colpi di acceleratore all’evoluzione umana, cosa che può trovare spiegazione anche in alcuni buchi oscuri che la stessa scienza evoluzionista riconosce come falle del sistema: vari mostri genetici, vari cambiamenti genetici, l’anello mancante, mancanza di competitori naturali, mancanza di habitat naturali per l’uomo, continua e costretta manipolazione della natura per sopravvivere, eccetera.

– Il calore e l’atmosfera assolutamente terrestri, con violenza e paura annesse, del primo capitolo vengono scaraventate ed inghiottite dall’assoluto sbigottimento per il ritrovamento del monolito, milioni di anni dopo, nel 1999, sulla Luna. Ancora più stupore scende in scena quando, colpito dall’alba lunare, questo emette un fortissimo segnale radio che ci sbalza nel 2001 a bordo della Discovery One. Qui il sapore delle prime scene viene completamente sovvertito e si annusa e si respira un’aria fredda, austera ed assolutamente tecnologizzata. Meraviglioso è come Kubrick abbia reso il calcolatore HAL 9000 talmente umano da renderlo volutamente freddo, triste, arrabbiato, cinico e straordinariamente calcolatore. Con solo una luce ad accendersi e spegnersi, Kubrick riesce ad umanizzare un computer rendendolo talmente empatico da risultare ancora più cattivo e spietato, senza dar conto del perché.

– L’ultimo piano della pellicola è la parte più filosofica e più scientificamente spinta della stessa. Bowman, il prediletto, raggiunge un piano talmente elevato della conoscenza della coscienza umana che acquisisce la capacità della quarta dimensione, potendo così guardare se stesso dal di fuori, da un corpo più giovane (una sua emanazione mentale?) di quello che è guardato. Ed in questa contemplazione dell’essere umano avviene il passo decisivo dell’evoluzione umana: l’oltreuomo. L’uomo diviene quel che deve divenire, attraverso lo “Star-child“, in una sorta di visione nietzschiana che non va ad amalgamarsi con l’etica, la morale e la volontà di potenza, ma solo ci permette di guardare e di capire, forse, che quel “bambino delle stelle” sarà l’archetipo della nuova umanità: sarà l’uomo che deve divenire, l’uomo che va oltre la propria conoscenza della non-conoscenza e si dirige verso un piano superiore dell’essere, cosciente e conoscente di essere divenuto l’uomo che deve divenire: l’Oltreuomo.


Tecnicamente il film è perfetto. La regia di Kubrick è impressionante, la sceneggiatura curata da lui e da Clarke è perfetta, le musiche sono azzeccatissime, la fotografia quasi non la si nota tanto è reale. Insomma, dal lato puramente tecnico è un capolavoro che rasenta la perfezione in ogni suo ambito. Dal lato contenutistico è un film enorme, pregno fino al midollo di messaggi su messaggi mai banali; è un film da sviscerare con calma e con la dovuta attenzione, magari andando anche a leggere qualche nozione di escatologia, psicologia e filosofia nietzschiana. Ma, è giusto ricordarlo, è godibile anche in assoluta verginità rispetto a quelle tematiche, sicuramente però, conoscendo la “grammatica” del film, lo stesso risulterebbe molto più avvincente e scorrevole.

Devo aggiungere altro? Capolavoro.
Guardatevelo!


PS: interessante, per gli amanti della grammatica cinefila, leggere come il genio di Kubrick sia così evidente in questo film grazie a queste brevi spiegazioni della tecnica registica utilizzata, degli effetti speciali, della produzione e della sceneggiatura a quattro mani con Clarke: link.

13 Maggio 2016

Jackie Brown (Tarantino)

Cari lettori,
oggi parliamo di un regista che non ha mai sbagliato un film, nemmeno uno di quelli secondari o “prestati” ad altri; oggi parliamo di un regista che ogni volta sforna perle dalla rara lucentezza. Quest’oggi, con Philmosophy, parliamo di uno dei miei registi preferiti con uno dei miei film preferiti; dopo aver recensito il suo ultimo gioiello “The Hateful Eight“, eccoci pronti per parlare del suo capolavoro. Per la regia di Quentin Tarantino, un film del 1997: Jackie Brown.


Jackie Brown arrotonda il suo esiguo stipendio da hostess contrabbandando del denaro per Ordell Robbie. Questi è un mercante d’armi tanto stralunato quanto poco affidabile con al fianco la bionda Melanie, una delle tante sue compagne, ed il maldestro Louis Gara, il suo braccio destro. Un giorno, Ordell riceve una chiamata dalla prigione da parte di Beaumont, uno dei suoi scagnozzi: egli gli chiede di liberarlo e di pagare la sua cauzione. Ordell si reca così da Max Cherry, un garante di cauzioni, che fa uscire Beaumont di galera. Quella stessa sera, Ordell decide di uccidere Beaumont per paura che quest’ultimo, assai intimorito dall’ambiente della prigione e con una grossa accusa sulle spalle a causa del possesso di armi illecite, parli dei suoi traffici con la polizia, ma ormai è troppo tardi.


Jackie Brown inizia con una carrellata mozzafiato: solo quella varrebbe il biglietto del cinema o del blu-ray. Tarantino con la macchina da presa è impeccabile, non uno scavallamento, non una torsione o vibrazione ansiosa , o vomitevole, non uno campo sbagliato o sfocato. Una fotografia eccellente che rende giustizia allo svolgersi dell’azione, grazie anche ad un montaggio perfetto che impregna la pellicola di un ritmo noir meraviglioso: mai troppo alto e mai troppo basso. Se nei film di Tarantino precedenti a questo ci si era abituati (e bene!) ad uno stile Pulp e, possiamo dire, neo-western non privi di intelletto anche cervellotico, ma sempre riposto a sfondo e contorno, in Jackie Brown la psiche regna sovrana e gestisce le carte, alternando la visione delle storie intrecciate fra loro (a blocchi), con analessi e prolessi mai pesanti, ma sempre azzeccatissime.

In Jackie Brown possiamo dire che Tarantino tenti di evidenziare la dicotomia fra USA e Mexico, il valore intrinseco del denaro ed il valore, quasi affettivo, che l’uomo gli attribuisce; un danaro, quindi, con un valore proprio accompagnato da un valore per l’uomo e con l’uomo. Questo si evidenzia soprattutto con la protagonista che impronta alcuni suoi dialoghi chiave sul valore dei soldi, sulla debolezza umana di fronte al denaro e sul valore stesso dell’uomo quando ha disponibilità economica. Inoltre, in alcune scene, si vede un Tarantino abilissimo nella suspense quasi da thriller/horror.

Con un finale convincente e non scontato, con una lunghezza importante, ma non pesante, con una regia sontuosa, una fotografia azzeccata, con le musiche equilibrate, con un ritmo impeccabile e con una recitazione oltremodo egregia, Jackie Brown (oltre ad essere un noir perfetto) è il capolavoro di Quentin Tarantino che qui, oltre al genere Pulp che lo ha reso famoso, inserisce anche una componente psicologica, sociale ed economica (se non politica), tutto unito ad una maturazione oramai completa del regista e ad un tocco geniale che, oramai, lo contraddistingue.

Che state aspettando? È venerdì. Andate a comprare o a noleggiare il blu-ray di Jackie Brown e godetevi l’immenso Tarantino!

6 Maggio 2016

Captain America: Civil War (Russo)

Cari lettori,
questo è un incontro di Philmosophy alquanto straordinario. Sì, perché come avrete sicuramente notato non sono solito parlare di film appena usciti al cinema, tranne che per The Hateful Eight, perché non voglio rovinare l’approccio che si può avere entrando vergini in quella meravigliosa sala ed anche perché ci sono così tanti film da riassaporare, persi per gli anni della storia, che trovo quasi svilente andare a recensire un film che non ha ancora detto tutto. Ma anche perché mi viene difficile un’analisi laica e “fredda” dopo solo una visione – solitamente alla prima visione mi piacciono quasi tutti i film (tranne Batman v Superman!). Ma oggi, come avrete capito, facciamo dell’atto straordinario l’ordinarietà ed andiamo a parlare di un film che il mondo intero aspettava ansioso, fra battaglie di pensieri, schieramenti opposti su etica, morale, giustizia e libertà. Un film che di potenziale ne aveva moltissimo e che ha creato un’attesa talmente tagliente e vibrante che le sale dei cinema erano divise fra: #teamcap e #teamiron. Ecco, tutto il suo valore l’ha espresso in quelle sale ed oggi, in punta di piedi, andrò a dire la mia su un film del 2016 per la regia dei fratelli Russo: “Captain America: Civil War“.


Nel 1991, agenti dell’HYDRA in Siberia risvegliano Bucky Barnes dal suo sonno criogenico e lo trasformano nel Soldato d’Inverno, condizionandolo mentalmente in modo che obbedisca a chiunque reciti una specifica combinazione di parole. In seguito Bucky viene inviato a recuperare da un automobile una valigetta contenente dei campioni di siero del super-soldato, e uccide gli occupanti del veicolo.

Nel presente, approssimativamente un anno dopo la battaglia di Sokovia, Steve Rogers, Natasha Romanoff, Sam Wilson e Wanda Maximoff impediscono a Brock Rumlow di rubare un’arma biologica da un laboratorio a Lagos, Nigeria. Durante lo scontro Rumlow aziona un giubbotto esplosivo, suicidandosi, ma Wanda limita l’esplosione, uccidendo però diversi volontari del Wakanda, e aumentando la sfiducia della comunità internazionale nei confronti degli Avengers.

Al quartier generale degli Avengers, il segretario di stato Thaddeus Ross informa gli Avengers che le Nazioni Unite hanno stipulato gli Accordi di Sokovia, che stabiliranno un ente governativo internazionale per monitorare i superumani, il cui numero è in rapida crescita, e decidere quando chiedere l’intervento degli Avengers. La squadra è divisa; Tony Stark sostiene la necessità di una supervisione esterna poiché si sente in colpa per aver creato Ultron e la conseguente distruzione di Sokovia, mentre Rogers fatica a fidarsi dei governi e delle istituzioni dopo la caduta dello S.H.I.E.L.D., e ritiene che gli Avengers debbano essere liberi di decidere di propria volontà quando intervenire.


Cercherò di fare meno spoiler possibili, ma siate consapevoli che qui di seguito potremmo incappare in tempistiche avanzate del film e quindi potreste rovinarvi la prima visione. Ma se non siete fan accaniti della serie Marvel e se gradite leggere i pensieri di un (non) comune mortale, allora proseguite pure. Anzi, accomodatevi!

Inizio col dire che non ho letto i rispettivi fumetti e quel che so sul mondo Marvel lo so esclusivamente tramite i film che la stessa ha rilasciato negli anni. Quindi conosco gli Avengers, i loro caratteri, punti deboli e di forza, tramite i film biografici e di gruppo che tutti conosciamo. Detto ciò, possiamo davvero cominciare.
Civil War aveva in sé, prima del rilascio, un potenziale immenso. Poteva trattare temi etici e filosofici (libertà, gruppo, personalità, ego, psicologia) come nessun cinecomic avesse mai fatto. Tutto questo potenziale si è riassunto nella divisione fra il #teamcap ed il #teamiron, cosa giusta e sana per mantenere una nota pressoché passatempistica con la quale il cinema è nato e, ancor di più, con la quale andrebbero comunque vissuti film di questo genere. Sì, perché nonostante Civil War abbia al suo interno tutti questi temi, sicuramente non è un film deltoriano o cronenberghiano (per citarne due che trovate su queste pagine), ma nasce con l’intento di divertire ed intrattenere, se poi riesce pure a fare pensare è tutto di guadagnato. Il problema di questi titoli, forse, è proprio questo: possono fare, ma non fanno – o non fanno abbastanza, secondo il nostro giudizio personale. Ma io, come ho anticipato, decisi tempo fa di godermi i film Marvel per quel che sono senza andarmi ad impelagare in parallelismi con la fumettistica che, comunque, avrebbero poco senso visto che la stessa Marvel ha più volte dichiarato che il mondo cinematografico si discosterà, anche se non del tutto, da quello fumettistico.

E se il problema è nell’attesa immensa e nelle aspettative troppe elevate, lo è sicuramente anche nella realizzazione che, immancabilmente, si fa mancare qualcosa. Ma non parliamo di qualcosa di soggettivo e che, quindi, a me può esser mancato, ma al regista no – e quindi ‘sticazzi. No, parliamo di oggettività. Andiamo per gradi.

Si crea nel pubblico appassionato e non una dicotomia, una rivalità di idee e di ideologie, e si vanno formando le due grandi fazioni che dovrebbero scontrarsi nel film per valori etici e morali: #teamcap e #teamiron. E’ una cosa meravigliosa. Peccato non sia così nel film. Dopo una analessi ed una prolessi ad inizio pellicola, Civil War ci sbatte in faccia, essenzialmente, la scelta: imbrigliamo gli Avengers sotto leggi (imperfette) che potrebbero valorizzarne il proprio essere, o li lasciamo liberi di scegliere dove intervenire, quando intervenire e come intervenire? Ovviamente a sfondo di questa scelta ci sono gli accadimenti di New York, Sokovia e Lagos. Se possiamo (e forse dobbiamo) passare oltre ad alcune imprecisioni avvenute ad inizio film, a questa mancata elaborazione della scelta cosa dovremmo fare? Dov’è la discussione? Dov’è l’umanità che dovrebbe fuoriuscire in una situazione simile? Dov’è l’onere della scelta? Civil War impacchetta tutto ciò e lo sforna in cinque minuti di dialoghi, banalotti e superficiali, a sfavore di qualche linea di sceneggiatura più raffinata e pungente. Non sempre c’è necessità di essere troppo verbosi, giustamente, ma allora utilizziamo bene la dote della sintesi che non significa non dire, ma dire l’essenziale. La discussione sulla scelta viene rotta quando Cap deve lasciare la scena per recarsi altrove e, fino a fine film, non viene ripresa. Ma il film non era Civil War? Per esserci una guerra civile debbono esserci scontri ideologici. Dove sono? Li abbiamo saltati a piè pari. E, come detto, nel finale si riprende a discutere sulle motivazione dell’una e dell’altra parte, ma deviandole sul privato di ciascun personaggio, cosa meravigliosa che però tende a sviare il focus e ad interdire lo spettatore che s’inebria dello scontro finale, ma non capisce (come è successo a me) le motivazioni di Cap. Dico solo di Cap perché, e questo è un mio giudizio personale, il personaggio di Iron Man è il meglio sviluppato. Ha una storia lineare, sincera, complessa, ma bellissima nella sua lucidità che, alla fine di questo film, si apprezza e si conosce ancor di più. E se quindi sono riuscito a capire le motivazioni di Tony Stark e a capire, ancor meglio, la sua vita e la sua psicologia (che è trattata finemente e con maestria), allora non sono riuscito a capire Capitan America che, di per sé, avrebbe un ruolo eticamente meraviglioso: custode e patriota degli USA che contravviene ad un regolamento USA in favore della propria libertà d’azione (volontà di potenza, ohoh!) così divenendo un clandestino, un ricercato fuorilegge che, non solo perpetua il suo credo scontrandosi con la controparte, ma arriva allo scassino, all’atto terroristico (sì, perché quando va in quel posto a fare quella tale cosa alla fine, è un atto terroristico se pensato e vissuto dalla parte del governo USA). E’ bene dire, però, che arriva a quel gesto perché anche la controparte, quella USA e quella di Iron Man (che non è propriamente sulle idee di USA, ma crede siano le migliori se paragonate a quelle di Cap), con la sua disciplina e la sua idolatria democratica arriva ad incatenare coloro che, anche sbagliando e causando (?) migliaia di morti, hanno sempre tentato di salvare il mondo o, quantomeno, di proteggerlo.

E’ lapalissiano quindi che nessuna delle due fazioni abbia la verità, ma è lapalissiano che Civil War non cristallizza nulla di tutto questo. Ci devi arrivare tu, con le tue conoscenze della storia Marvel e la tua cultura generale. E questa sarebbe una cosa bellissima in un film di Lynch, non in uno della Marvel diretto dai fratelli Russo, intendiamoci. A Civil War mancano dialoghi, mancano scene immaginifiche, manca la descrizione del dibattito sulla scelta, sulle conseguenze, sulle migliorie e sull’onore della stessa. Manca tutto questo, quindi manca il film. Film che, tolto ciò, è anche gradevole quando non tenta di diventare prolisso e verboso in punti ed occasioni che non dovrebbero esserlo. Ci sono parti del film noiose, davvero, che non catturano l’attenzione ed anzi rilassano talmente lo spettatore quasi ad annoiarlo. Battute ironiche fuori posto; alcuni recensori dicono sia una comicità più matura. Balle. E’ comicità matura mal riuscita. Preferivo “sarcasmo ed ironia taglienti” a quelle battute scritte solo per stemperare le bellissime scene di ansia e pathos che, di per sé, andrebbero lasciate nude e crude.

Ecco, forse l’errore più grosso di Civil War è che tenta di essere maturo, non riuscendoci, ed andando a peccare laddove i film Marvel sempre avevano successo. Poi è indubbio che, ad esempio, le scene dei combattimenti siano orchestrate bene: le lotte corpo a corpo hanno una regia ed una coreografia molto accattivante, con un qualcosa di orientale (forse?). Lo scontro all’aeroporto è una delle scene più divertenti del film anche se, volendo essere matura, è stata forse un po’ troppo allungata inutilmente risultando tediosa proprio nel mezzo.

Insomma, tirando le somme (eheh!) e sapendo di aver dimenticato molte cose: Civil War è un film medio, mi verrebbe da dire mediocre – con accezione negativa – non tanto per quello dimostrato a schermo, ma quanto per quello che volutamente hanno omesso. Scene di lotta belle ed avvincenti. A volte tempi lenti e prolissi, quindi tediosi. Dialoghi troppo superficiali che solo chi è appassionato od ha una conoscenza del “settore” capisce e ne gioisce. Struttura di alcuni personaggi molto bella, di altri pessima.

Il titolo è “Capitan America: Civil War“. Perché io, guardandolo, ho avuto la sensazione che uno dei personaggi meno caratterizzati sia stato proprio il Cap? A favore, tra l’altro, del suo antagonista nella famigerata #civilwar, Tony Stark, che risulta essere, a mio parere, il miglior personaggio Marvel a livello caratteristico.

Cinema o non cinema? Mah, dipende. Gli appassionati andranno a prescindere da tutto, giustamente; chi invece è semplicemente interessato si faccia due conti. Sicuramente è un cinecomic nella media, né sopra né sotto gli altri. Personalmente l’ho odiato e lo odio perché poteva essere molto di più di quel che è stato. Peccato. Ma non è un brutto film, diciamolo.

PS: ma Visione non era mica l’ultra powa? Dov’è la sua forza? Ohibo’!

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