Paradossalmente il carcere dovrebbe essere il luogo più sicuro, eppure sempre più spesso c’è chi in carcere ci muore. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e molti altri saranno uccisi in carcere, nella maggior parte dei casi pestati nelle proprie celle, là dove non sarebbero dovuti neanche stare.
Questi non sono casi isolati. Le testimonianze di violenze, abusi, situazioni degradanti ormai sono all’ordine del giorno.
Era il 14 ottobre 2007 quando Aldo Bianzino moriva nel carcere di Perugia, 48 ore dopo essere stato arrestato insieme a sua moglie per possesso di alcune piante di marijuana nella loro abitazione a Pietralunga, nelle campagne umbre.
Ufficialmente Aldo muore per emorragia cerebrale; in realtà l’autopsia riscontra sul corpo quattro ematomi cerebrali, fegato e milza danneggiati, due costole fratturate.
Di carcere si muore.
Dieci anni dopo non è ancora emersa la verità; Rudra Bianzino, il figlio di Aldo, con un appello chiede la riapertura delle indagini, cercando una volta per tutte giustizia. (1)
Il carcere dovrebbe essere uno strumento finalizzato alla rieducazione del condannato, così si scrive sui testi scolastici, ma nella realtà non è altro che una bolla che alimenta quel senso di isolamento ed esclusione sociale che nella maggior parte dei casi lo porterà a compiere gli stessi gesti: “[il carcere] non produce, dunque, l’effetto di ridurre il tasso generale di criminalità ma consegue il risultato opposto: innalzarlo ulteriormente, affinando le capacità delinquenziali dei detenuti, insediandoli più profondamente nel tessuto dell’illegalità e negando loro ogni alternativa di vita”. (2)
Le morti prima citate non sono frutto di errori, negligenza o che altro, ma sono la logica e perversa conseguenza di un attitudine che pervade l’intero sistema, che considera i detenuti reietti, scarti della società.
Questa logica prima ancora che tra le mura e le sbarre delle celle, si sviluppa all’interno della società: chiunque non è conforme alle regole imposte, qualunque esse siano, è automaticamente messo al bando, prima ancora che fisicamente, socialmente: si sviluppa così un odio sociale che pervade il singolo già colpito dall’isolamento e dall’esclusione:
“il carcere è nato, più che come sanzione, come pulizia della società dai suoi scarti: poveri, vagabondi, mendicanti, sbandati, irregolari di ogni genere, da offrire in sacrificio all’ordine sociale”. (3)
A dettare le regole è il potere costituito, il potere dei più (più ricchi, più forti, ecc.), appunto “l’ordine sociale”, che indica e indirizza cosa è moralmente (e di conseguenza legalmente) accettabile: così chi occupa una casa perchè una casa non ce l’ha, chi si oppone alle devastazioni ambientali e del territorio, chi scappa da guerre, fame e sfruttamento, è semplicemente un criminale.
È chiaro che il carcere non è altro che uno strumento (ormai anche in tal senso, se vogliamo, arcaico rispetto agli strumenti di sorveglianza e repressione diffusi) di disciplinamento e controllo.
Il carcere va, perciò, abolito, nell’interesse della “sicurezza dei cittadini” (come appunto la proposta di Manconi, Anastasia, Calderone, Resta) ma anche, e soprattutto, come forma di riappropriazione delle vite rispetto al comando e alle costrizioni morali e fisiche imposte dall’alto.
Passo che però si scontra sistematicamente con il progressivo spostamento a destra delle istituzioni che attraverso la retorica (questa si) securitaria, legittima e giustifica la criminalizzazione della povertà, della diversità ecc.; si pensi alla recente legge Minniti-Orlando su sicurezza e decoro, oppure agli interventi di questi giorni di stampo dichiaratamente razzista ordinati dal neo ministro degli interni Salvini.
Di questi temi parleremo durante la puntata in diretta da Sherwood Festival con contributi di Stefano Anastasia (Presidente onorario dell’associazione Antigone, Garante dei detenuti per le regioni Umbria e Lazio, coautore del libro “Abolire il carcere”, Chiarelettere 2015) e Rossella di ACAD (Associazione Contro gli Abusi in Divisa).
(1): Appello AVAAZ.ORG
(2): Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, Abolire il carcere, Milano, 2015 (pag. 7)
(3): Gustavo Zagrebelsky, Abolire il Carcere, postfazione (pag. 106)
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