Carissimi lettori,
comincio col ringraziare chi mi ha permesso di scrivere per questa realtà, dandomi la possibilità di raccontare le mie sensazioni e la mia (nostra) storia attraverso gli articoli che andranno a rimpolpare queste nostre serate. Sì, perché questa rubrica, che stiamo inaugurando in questo momento, tratterà di cinema e di filosofia: un connubio perfetto per tramandare il sapere e l’amore per il sapere in modo rapido, facile e grazioso; apriamo quindi le porte di Philmosophy.
Quando mi è stato chiesto di iniziare questo viaggio, nelle sale cinematografiche c’era una ricca varietà di pellicole degne di nota: gli oscar ancora dovevano essere assegnati, Tarantino bussava prepotentemente all’emporio di Minnie, DiCaprio si batteva su più fronti per bucare l’opinione pubblica ed accaparrarsi, facilmente, l’ambita statuetta, Jobs riviveva in una interpretazione straordinaria di Fassbender ed a contorno c’erano altre belle pellicole e belle uscite in blueray. I tempi tecnici e di formazione si sono estesi, si sono allungati, ma la mia idea mai è cambiata – sì, ha vacillato in qualche occasione, ma è mai cambiata.
Ebbene, oggi, questa sera, parleremo di un film che ha segnato il pubblico, lo ha diviso, ha fatto sì che tutti esprimessero un’opinione, che tutti ne parlassero e si sa che, quando si parla tutti di un qualcosa, quel qualcosa echeggia nell’etere del pensiero fino a che la memoria non cederà il suo posto a qualcos’altro.
Questa sera, amici miei – e sono emozionato nello scrivere -, parliamo de: The Hateful Eight di Quentin Tarantino.
TH8 (The Hateful Eight, per abbreviare) è l’ottavo film di Tarantino. La nascita di questa pellicola è travagliata: come ben saprete, Tarantino decise di distribuire la sceneggiatura quasi ultimata ad una cerchia di persone fidate, per raccogliere opinioni, lodi e sarcasmi, ma si vide recapitare una pugnalata dolce come il diabete: parti della sceneggiatura fuoriuscirono e presero il largo sul web. Il mondo conosceva, dunque, bocconi del mondo di TH8 e Tarantino decise di abbandonare il progetto. Fortuna nostra, è proprio da dire, per qualche vicissitudine ci ripensò e dopo poco tempo sfornò nelle sale di tutto il mondo il suo film – e vedremo dopo che non sarà solo un film di Tarantino, ma “il” film di Tarantino. Dopo un parto lungo e travagliato, i cinema di tutto il globo si riempirono dell’eco degli spari, dell’eco del suono degli stivali sul legno, dell’eco dello scoppiettare della legna sul fuoco, dell’eco di “negro!”, “uomo bianco!”, “sgualdrina!”, “boia!”.
Diviso in sei capitoli – capitoli che contraddistinguono l’arte del Tarantino -, il film inizia con un piano sequenza sul crocefisso ricoperto dalla neve: la maestria di quella scena è a dir poco sorprendente. Ricordo che in sala, la prima volta che lo vidi, mi parve di poter sentire il freddo, il vento, l’odore della neve e dell’aria gelida e pungente, il legno intriso di umidità raggelante il Cristo esposto sulla croce con un’espressione addolorata, quasi vacua. Bene, immaginate tutto questo racchiuso in un piano sequenza di qualche minuto che, pian piano, partendo dal primo piano del volto del Cristo, si allontana, scendendo, dolcemente, fino ad inquadrare tutta la bianca vallata attorno al crocefisso ed aspettando l’ultima diligenza per Red Rock.
Lungo la sua strada, intrisa di neve e ghiaccio, la diligenza incontra un uomo nero, il Magg. Marquis Warren, seduto su di una sella da cavallo posizionata su tre cadaveri congelati. Warren, riscaldandosi col fumo della sua pipa, ferma la diligenza e chiede un passaggio a Red Rock, ma quella diligenza non è una semplice diligenza: è una diligenza governata da un cocchiere che è stato adeguatamente pagato per offrire un viaggio privato, solitario e rapido ad un tale. Ma Warren ha freddo, ha il cavallo morto, ed i suoi cadaveri non possono attendere oltre nel ghiaccio. Dalla finestrella del carro spunta la canna di un fucile, ed una voce roca e squillante impartisce degli ordini a Warren che prontamente li esegue, con un po’ di sarcasmo. La voce e gli ordini, si viene a sapere, sono di John Ruth. I due intavolano una veloce discussione sulla loro reciproca conoscenza e su di una bistecca mangiata non si sa bene né quando né dove ed è in questa occasione che Ruth presenta a Warren la sua prigioniera, una tale Daisy Domergue. Ruth sostiene che la sgualdrina valga diecimila dollari e che gli pare ardito, e non poso strano, che un negro sia fra quelle montagne, nel bel mezzo di una bufera di neve, oggi, proprio oggi, e che casualmente chieda un passaggio alla diligenza che porta Domergue a Red Rock. Warren allora conta i suoi cadaveri ed informa il Boia che a lui ottomila dollari sono più che sufficienti ed è così che il Maggiore nero riesce ad ottenere il passaggio tanto agognato, ma deve lasciare le sue due pistole al cocchiere, diciamo come caparra. Tramite le conversazioni fra i due si scopre che John Ruth è il famoso Boia, ovvero un cacciatore di taglie che porta i propri prigionieri vivi sino alla forca – da qui il suo soprannome -, mentre Warren è un veterano della guerra civile, facente parte dell’Unione, ed ora noto cacciatore di taglie. I due dibattono anche sul loro attuale mestiere: Warren sostiene che sia più facile e sicuro uccidere le proprie vittime per poi consegnarle per riscuotere il danaro, mentre Ruth ribatte dicendo che nessuno ha mai detto che questo dovesse essere un mestiere facile. Durante il viaggio si viene a sapere che Warren è stato amico di Lincoln e che possiede una lettera dello stesso – essendo loro amici di pennino.
Ad aprire il secondo capitolo è il cocchiere che avvisa Ruth che per strada c’è un altro vagabondo bisognoso di un passaggio, allora la diligenza si accosta all’uomo e qui si intavola un’altra discussione. Il vagabondo è Chris Mannix, un rinnegato del sud che sostiene di esser stato nominato sceriffo di Red Rock. A tal affermazione Ruth, che conosce di fama il giovane, ridacchia e decide di abbandonarlo a se stesso quando, con prontezza, Mannix lo obbliga eticamente ad aiutarlo. Ruth acconsente e, stipulando un patto con Warren – i due si aiuteranno a proteggere gli interessi dell’altro fino a che non saranno giunti a Red Rock -, fa salire a malincuore Mannix. Da questo momento i personaggi iniziano a prendere una forma ancor meglio modellata, iniziano ad imboccare le proprie strade caratteriali, dialettiche ed etiche.
Il resto del film, con i restanti capitoli, si svolgerà nell’emporio di Minnie dove Ruth, Warren, Mannix, Domergue ed il cocchiere incontreranno altre quattro persone intrappolate dalla bufera di neve.
Non mi spingo oltre con la trama perché potrebbero capitare spoiler e non è mia intenzione farne, piuttosto vorrei analizzare il linguaggio e la filosofia dietro a TH8.
Il film ha ricevuto molte critiche, la più popolare è la sua lentezza e noia. Be’, dobbiamo innanzi tutto dire che lentezza e noia non sono sinonimi: un film può essere lento ed accattivante, mentre può essere veloce e noioso. Dobbiamo anche ricordare che Tarantino può essere lento, ma mai noioso. Chi è andato in sala ed ha giudicato il film noioso, be’, o non ha colto la pellicola, o ci capisce ben poco di cinema. Collegandoci ad un altro difetto trovato dall’opinione pubblica, alcuni legano la noia del film alla sua stessa verbosità. Probabilmente sono gli stessi che apprezzano Bastardi senza gloria, o Django, o Le Iene. Allora, volete il mio punto di vista? Tarantino è sempre verboso e mai noioso. I film sopra citati non sono sicuramente pellicole poco verbose, forse lo sono meno di TH8, ma non per questo sono poco verbose: ci sono più parole in Bastardi senza gloria, ad esempio, che in tutta la saga di Transformers. Inoltre, va ricordato che Tarantino non sbaglia mai un dialogo: non v’è mai una parola fuori posto, non ci sono mai accelerazioni mancate o di troppo, c’è sempre un’altissima retorica e capacità di scrittura dello sceneggiatore – non a caso, Tarantino, è stato pluri-premiato come sceneggiatore. Un altro difetto di cui tutti si riempiono la bocca è la bassa violenza fisica nel film in favore di quella verbale; seriamente? Dobbiamo metterci d’accordo. Il film dura circa tre ore e da buon sceneggiatore, Tarantino, ha distribuito il tutto in modo impeccabile: ci sono scene sanguinarie, ci sono scene verbose, ci sono scene western, ci sono scene filosofiche, ci sono scene storiche (ad esempio quando Mobray suddivide l’emporio a mo’ di America). Se la poca violenza è la testa di Bob sfracellata da un doppio colpo di pistola, se la troppa violenza verbale è dare della puttana a Domergue, be’ ragazzi: avercene.
Ed ora voglio toccare un tasto molto interessante. Tarantino viene etichettato molto spesso come misogino. Cominciamo col dire che i personaggi femminili migliori, da Pulp Fiction in avanti, li ha sempre e solo avuti Tarantino – dobbiamo parlare anche di Jackie Brown, di Kill Bill, di Bastardi senza gloria? La robustezza e la complessità delle sue donne sono caratteristiche che raramente si trovano in una pellicola ed ancor più raramente si trovano trattate con tale umanità, sentimento e professionalità. Vogliamo ricordarci di Shosanna? Per favore, dobbiamo essere seri. Domergue è un personaggio femminile strabiliante, impeccabilmente costruito e con un carisma, una passione ed un amore infiniti. Il film non è per nulla misogino, anzi innalza la donna a valori cui solo Tarantino sa elevare le donne nel cinema.
Altro punto interessante è la parola “negro” con la quale tutti i personaggi si rivolgono a Warren. Ecco, questo viene visto come razzista da buona parte dei detrattori del film. Ma, avete visto che Warren è davvero negro? Avete notato il lasso temporale in qui è inserita questa storia? Avete notato con quanta superficialità viene pronunciata questa parola? Avete notato, di contro, come Warren si appella agli altri personaggi bianchi?
Mi avvio a concludere dicendo che questo film, per quanto mi riguarda, è una dei punti saldi di Tarantino. Alcuni ci hanno visto molto de Le iene, altri de La cosa di Carpenter, altri hanno notato altre citazioni che, comunque, sempre Tarantino inserisce nelle sue pellicole. Questo film è il film più introspettivo e più sentimentale di Tarantino; in questo film si riesce ad intuire l’animo di Quentin, la sua idea di politica, la sua idea di mondo, la sua idea di donna, la sua idea di cattiveria, di bontà, di giustizia (bellissimo il passo sulla giustizia di frontiera); insomma, in questo film ci sono un sacco di suppellettili, fra chicche e notizie, fra dettagli e concetti, tra filosofia e filologia, fra teologia e giurisprudenza – nonché di etica umana. Da sottolineare, poi, è il tratto di penna con cui Tarantino disegna i suoi personaggi malvagi e con cui, poi, li uccide; non v’è apologia del crimine né tantomeno del criminale, ma c’è stupore, forse un po’ di curiosità, ma sicuramente una fine triste, bieca e fredda: il male perde sempre – seppur affascinando.
Sono tre ore di goduria, dove finalmente bisogna accendere il cervello per potersi godere un film. Con questa opera si vuole sottolineare che il cinema non è solo svago e sballo per gli occhi, ma anche intelletto, cultura e filosofia. Quindi, che dirvi, so che oramai è fuori dalle sale, ma appena sarà disponibile in blueray correte a comprarlo, affittatelo in qualche videoteca. Merita la nostra attenzione, merita il nostro ragionamento e merita, soprattutto, tutto il tempo che ci prende.
Non so se TH8 sia o meno il capolavoro di Tarantino, sicuramente è un’opera d’arte.