Il labirinto del fauno (del Toro)
Cari lettori,
torniamo su queste pagine per parlare di un film che unisce la fantasia alla realtà storica ingabbiando quest’ultima in un labirinto di magia e di tenebre. Questo regista è uno dei miei preferiti e, nei suoi film, ha sempre un netto filo rosso che ne consacra le gesta e la bravura; uno dei registi di genere più famosi ed affermati al mondo, un genio avveniristico. Per la regia di Guillermo del Toro, un film del 2006: Il labirinto del fauno.
«Tanto tempo fa, nel regno sotterraneo, dove la bugia, il dolore, non hanno significato, viveva una principessa che sognava il mondo degli umani. Sognava il cielo azzurro, la brezza lieve e la lucentezza del sole. Un giorno, traendo in inganno i suoi guardiani, fuggì. Ma appena fuori, i raggi del sole la accecarono, cancellando così la sua memoria. La principessa dimenticò chi fosse e da dove provenisse. Il suo corpo patì il freddo, la malattia, il dolore, e dopo qualche anno morì. Nonostante tutto, il Re fu certo che l’anima della principessa avrebbe, un giorno, fatto ritorno, magari in un altro corpo, in un altro luogo, in un altro tempo. L’avrebbe aspettata, fino al suo ultimo respiro. Fino a che il mondo non avesse smesso di girare.»
1944: Francisco Franco è saldamente al potere dopo una guerra civile.
Per sfuggire alla realtà, tramite l’immaginazione, Ofelia viene in contatto con una realtà magica e fantastica. In questo mondo incontra esseri favolosi, tra cui un fauno; tale mondo fantastico è tuttavia anche un mondo reale, visibile.
Cari lettori, questo è un film magico. È il manifesto di Del Toro, è tutto il suo cinema. Nel Labirinto (intendendo il film, abbreviando) il regista consacra tutta la sua bravura sia tecnica sia artistica e, privo di qualsiasi prigione affaristica e monetologica, è libero di dar sfogo alle sue idee più filosofiche ed altamente intellettuali: da qui nasce, appunto, il suo labirinto. Se la sua tecnica rimane indiscussa già dai suoi primi film, come poi verrà tombalmente affermata in Crimson Peak, qui la sua idea artistica e filosofica prende letteralmente il volo: si innalza ad un piano talmente alto e profondo da non esser capita dalla maggior parte degli spettatori e dalla critica più affermata.
Il Labirinto non è un classico film dark-fantasy. No. È molto di più. Il Labirinto è il mondo visto con gli occhi di del Toro, è la cattiveria umana avversa alla fragilità bambinesca che sempre agogna la libertà e la fantasia, ma sempre viene imbrigliata in un mondo dogmatico, fatto di regole e di tirannie adulte: il Labirinto è la consacrazione dell’uomo deltoriano e dei suoi antagonisti più affermati, i bambini e la fantasia. Sì, perché in del Toro ovunque ci sia un adulto c’è il male, e l’uomo può trovare un barlume di umanità (termine usato da noi, nel linguaggio comune, per identificare la pietas e la bontà di cui è, appunto, capace l’animo umano) solo nel dolore e nella malattia. Non ha altre vie, perché è corrotto dalla propria volontà di potenza che lo costringe in una prigione d’oro e più lo lascia libero di tornare alle sua fantasie più assurde e meravigliose.
Non descrivo oltre le meccaniche del film perché ritengo siano parole inutili ed uno spoiler distruttivo nei confronti dell’opera. Il Labirinto è una pellicola che va gustata dall’inizio alla fine, senza interruzioni, completamente vergini alla trama ed agli argomenti trattati. Il Labirinto ti deve prendere, coinvolgere, rubare le emozioni, le lacrime, ti deve indurre i sorrisi, ma anche ti porterà ad una riflessione seria e profonda sull’esistenza dell’essere umano e sul significato di essere un umano – così tanto accostato alla bontà d’animo, ma che, in del Toro, trova una dicotomia fissa e stringente.
Lasciate che il Labirinto vi colga i sentimenti e le emozioni più recondite; date libero spazio alla fantasia e tentate, per una volta, in intimità, di dimenticare d’essere adulti con responsabilità sociali e culturali. In fondo potresti essere anche tu la reincarnazione del principe o della principessa del regno sommerso, o forse il fauno.