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29 Aprile 2016

Il labirinto del fauno (del Toro)

Cari lettori,
torniamo su queste pagine per parlare di un film che unisce la fantasia alla realtà storica ingabbiando quest’ultima in un labirinto di magia e di tenebre. Questo regista è uno dei miei preferiti e, nei suoi film, ha sempre un netto filo rosso che ne consacra le gesta e la bravura; uno dei registi di genere più famosi ed affermati al mondo, un genio avveniristico. Per la regia di Guillermo del Toro, un film del 2006: Il labirinto del fauno.


«Tanto tempo fa, nel regno sotterraneo, dove la bugia, il dolore, non hanno significato, viveva una principessa che sognava il mondo degli umani. Sognava il cielo azzurro, la brezza lieve e la lucentezza del sole. Un giorno, traendo in inganno i suoi guardiani, fuggì. Ma appena fuori, i raggi del sole la accecarono, cancellando così la sua memoria. La principessa dimenticò chi fosse e da dove provenisse. Il suo corpo patì il freddo, la malattia, il dolore, e dopo qualche anno morì. Nonostante tutto, il Re fu certo che l’anima della principessa avrebbe, un giorno, fatto ritorno, magari in un altro corpo, in un altro luogo, in un altro tempo. L’avrebbe aspettata, fino al suo ultimo respiro. Fino a che il mondo non avesse smesso di girare.»

1944: Francisco Franco è saldamente al potere dopo una guerra civile.
Per sfuggire alla realtà, tramite l’immaginazione, Ofelia viene in contatto con una realtà magica e fantastica. In questo mondo incontra esseri favolosi, tra cui un fauno; tale mondo fantastico è tuttavia anche un mondo reale, visibile.


Cari lettori, questo è un film magico. È il manifesto di Del Toro, è tutto il suo cinema. Nel Labirinto (intendendo il film, abbreviando) il regista consacra tutta la sua bravura sia tecnica sia artistica e, privo di qualsiasi prigione affaristica e monetologica, è libero di dar sfogo alle sue idee più filosofiche ed altamente intellettuali: da qui nasce, appunto, il suo labirinto. Se la sua tecnica rimane indiscussa già dai suoi primi film, come poi verrà tombalmente affermata in Crimson Peak, qui la sua idea artistica e filosofica prende letteralmente il volo: si innalza ad un piano talmente alto e profondo da non esser capita dalla maggior parte degli spettatori e dalla critica più affermata.

Il Labirinto non è un classico film dark-fantasy. No. È molto di più. Il Labirinto è il mondo visto con gli occhi di del Toro, è la cattiveria umana avversa alla fragilità bambinesca che sempre agogna la libertà e la fantasia, ma sempre viene imbrigliata in un mondo dogmatico, fatto di regole e di tirannie adulte: il Labirinto è la consacrazione dell’uomo deltoriano e dei suoi antagonisti più affermati, i bambini e la fantasia. Sì, perché in del Toro ovunque ci sia un adulto c’è il male, e l’uomo può trovare un barlume di umanità (termine usato da noi, nel linguaggio comune, per identificare la pietas e la bontà di cui è, appunto, capace l’animo umano) solo nel dolore e nella malattia. Non ha altre vie, perché è corrotto dalla propria volontà di potenza che lo costringe in una prigione d’oro e più lo lascia libero di tornare alle sua fantasie più assurde e meravigliose.

Non descrivo oltre le meccaniche del film perché ritengo siano parole inutili ed uno spoiler distruttivo nei confronti dell’opera. Il Labirinto è una pellicola che va gustata dall’inizio alla fine, senza interruzioni, completamente vergini alla trama ed agli argomenti trattati. Il Labirinto ti deve prendere, coinvolgere, rubare le emozioni, le lacrime, ti deve indurre i sorrisi, ma anche ti porterà ad una riflessione seria e profonda sull’esistenza dell’essere umano e sul significato di essere un umano – così tanto accostato alla bontà d’animo, ma che, in del Toro, trova una dicotomia fissa e stringente.

Lasciate che il Labirinto vi colga i sentimenti e le emozioni più recondite; date libero spazio alla fantasia e tentate, per una volta, in intimità, di dimenticare d’essere adulti con responsabilità sociali e culturali. In fondo potresti essere anche tu la reincarnazione del principe o della principessa del regno sommerso, o forse il fauno.

22 Aprile 2016

La sottile linea rossa (Malick)

Cari lettori,
torniamo oggi sulle pagine di Philmosophy con un capolavoro del cinema. Oggi è la giornata mondiale della Terra ed anche noi de Lautoradio vogliamo rendere grazie al mondo che ci ospita, che ci permette di vivere e di amare; personalmente ho deciso di omaggiare questa giornata con un film che eleva la natura come quasi nessun altro ha mai fatto: la dipinge come super partes, come madre del tutto – e da madre qual è, ama il tutto sempre ed incondizionatamente. Questo film, inoltre, ha segnato il genere a cui appartiene, lo ha solcato e lo ha ridisegnato, seppur non avendo quel successo presso il grande pubblico che, sicuramente, avrebbe meritato. Parliamo di una pellicola del grande regista Terrence Malick, dell’anno 1998: La sottile linea rossa.


Guadalcanal (Isole Salomone – Sud del Pacifico), 1942: la compagnia di fucilieri Charlie, di un reparto dell’esercito statunitense, viene mandata alla conquista di un campo d’aviazione giapponese posto in cima ad una collina dell’isola. Il gruppo di militari è guidato dal mite capitano Staros, agli ordini dell’ambizioso colonnello Tall; durante il lungo assalto alla collina si consumeranno le vicende e i tormenti interiori di un gruppo di uomini costretti a confrontarsi con i propri doveri e la follia della guerra, mentre la natura, lussureggiante e indifferente, sembra cullarli e contrapporsi alla loro logica.


Il film pur raccontando la guerra non la esibisce come protagonista (si pensi che nei primi quaranta minuti non viene sparato un colpo), ma la inserisce in una narrazione esterna e conseguente all’indole dell’uomo nel lussureggiare della natura. Li contrappone ad una natura che li osserva, li culla, ma mai li giudica; ad una natura che prosegue il suo essere e compie il ciclo che le compete.

Malick, è evidente, vuole utilizzare la guerra per raccontare l’uomo, per raccontare le atrocità che gli competono, ma anche la bellezza della freschezza nei suoi occhi che si riempiono della visione di semplicità e di naturalezza della natura che lo circonda. Il cercare, sempre, di fermarsi e di assaggiare l’aria, cullarsi fra l’erba alta, godersi il vento ed il riparo di una grossa pianta, il sole sul viso o l’acqua scendere in un fiume ed ancora la non violenza del cuore, il terrore di uccidere, la non volontà di uccidere, la ricerca della pace nella guerra. Mette quindi in risalto la contrapposizione fra natura placida, a volte tremenda, ma mai cattiva e la crudeltà umana che trova la sua iperbole in alcune inquadrature e battute che lasciano intuire allo spettatore che gli stessi soldati odiino quello che fanno e che solo chi li comanda, chi è dietro e non ha mai vissuto una guerra di persona, li esorta ad uccidere, a togliere la vita ad un loro simile, mentre la natura li coccola e li consola in un mare verde d’erba esposta al soffiare del vento.

Nel film ricorrono spesso tormenti interiori di vari soldati, tutti co-protagonisti, ed il regista racconta, appunto, la loro storia e la loro evoluzione con riflessioni, analessi e voci fuori campo che ne esplicano i pensieri più profondi e reconditi. La pellicola doveva durare, secondo il montaggio di Malick, più di sei ore, così raccontando e sviluppando l’intera storia di ogni co-protagonista, ma il regista si vide costretto a tagliare molte parti del film e a portarlo ad una durata di circa tre ore per ordine della produzione. Rimane il dubbio di che cosa realmente Malick potesse raccontare se avesse avuto il final cut, vedendo, appunto, cosa è riuscito a fare pur essendo sotto la morsa imprenditoriale delle produzioni: un vero peccato.

Quindi, “La sottile linea rossa” è un film da vedere assolutamente, amanti o non del genere, perché fa riflettere, spalanca gli occhi, la mente e la bocca, colpisce l’animo e la sensibilità dello spettatore mostrando scene nude ed iperboli personali mozzafiato. La tecnica del regista è pressoché perfetta, la trama è ben strutturata, la sceneggiatura è composta, la fotografia è immensa: il film è un capolavoro. Per inquadrare chi sia Terrence Malick bisogna dire che molti attori famosi di Hollywood chiesero di poter recitare nel film, anche gratuitamente, ma Malick scelse di propria testa, libero da qualsiasi pressione o da giogo di potere.

Candidato e vincitore di molti premi, fra cui sette candidature all’Oscar, il film è divenuto un cult.
Prendetevi tre ore per voi e godetevi questo capolavoro di Malick.

16 Aprile 2016

Per tutto l’oro del mondo

Come sempre in un romanzo di Carlotto ci sono molte più cose di quanto appaia a una lettura superficiale.  La storia si legge con piacere, specie per i lettori affezionati alla figura dell’Alligatore, soprannome di Marco Buratti, un ex cantante di blues, che ha passato diversi anni in galera per una condanna ingiusta e ora fa l’investigatore senza licenza.

Lo affiancano nella sua attività Max la Memoria, una sorta di archivio vivente di tutto quello che accade ed è accaduto a Padova e dintorni, a cui l’attività politica giovanile ha procurato una condanna per banda armata che lo ha reso da anni latitante.

Se i due sono per diversi aspetti una sorta di alter ego dell’autore, il loro compagno di avventure, il gangster Beniamino Rossini, ha il fascino del bandito romantico: contrabbandiere fra le coste dell’Adriatico, ha un’etica non precisamente legale ma severa, e un codice di comportamento  difficile da capire anche per le nuove generazioni di fuorilegge. Criminali che rischiano poco, infatti non rapinano più le banche ma le ville, creando paura diffusa, terreno di coltura per derive securitarie,   in cui trovano facilmente giustificazioni i  “giustizieri della notte” ma anche quanti dalle paure altrui si sono ricavati carriere politiche.

L’aspetto più interessante è lo sguardo disincantato sul Nord Est italiano e le sue contraddizioni.

Carlotto è un attento osservatore delle trasformazioni sociali e parte sempre da reali fatti di cronaca per costruire le sue storie: e infatti troviamo casalinghe dalla doppia vita, vittime che si fanno persecutori, moralisti senza morale.  Buratti e compagni sentono ancora bisogno di giustizia, non necessariamente di legalità, soprattutto per i più deboli e indifesi e questo ci consente di immedesimarci e di amare questi personaggi.

Se altri perdono ogni umanità, accecati come sono dalla brama di denaro  (e di potere, come il Giorgio Pellegrini di altri romanzi, che fa qui una fugace ma promettente apparizione)  l’Alligatore lavora anche gratis, o meglio per simbolici venti centesimi, per rimettere un po’ a posto le cose.

Uno sguardo particolare quello sulle donne che finalmente qui non appaiono nel ruolo di vittime, l’unico che gli venga consentito dalla  cronaca odierna.

Se poi avete voglia di leggere altri romanzi di Carlotto certamente troverete un sacco di temi interessanti e una lettura attenta dei problemi contemporanei. Anche la sua vicenda giudiziaria, in parte narrata  in “Il fuggiasco” merita di essere conosciuta.

Vale la pena di leggere la recensione di  Alessandro Bullo http://www.thrillercafe.it/per-tutto-loro-del-mondo-massimo-carlotto/ che riguarda la narrativa noir.

Quanto alla musica ce n’è talmente tanta nel romanzo, sempre che vi piaccia il blues.

La lettrice disordinata

15 Aprile 2016

eXistenZ (Cronenberg)

Cari lettori,
oggi un appuntamento speciale con Philmosophy per parlare di un film che racconta una realtà nella realtà di una realtà, che è nella realtà di una realtà. Insomma, parliamo di una pellicola che fa sua, forse più di ogni altra, una delle domande fondamentali dell’uomo: la realtà che vediamo è davvero la realtà vera? Per la regia del grande David Cronenberg, un film del 1999: eXistenZ.


In un futuro imprecisato, la famosa creatrice di videogiochi Allegra Geller sta per presentare la sua ultima creazione: eXistenZ, un gioco basato su un particolare sistema di collegamenti biologici che permette al giocatore di vivere una dimensione parallela del tutto realistica. Durante la prima dimostrazione del gioco, un terrorista infiltrato fa fuoco e ferisce Allegra: quest’ultima sarà costretta a fuggire insieme a Ted, addetto alla sicurezza nella ditta che distribuisce eXistenZ. Il ferimento della donna, a quanto pare, ha messo a repentaglio la stessa sopravvivenza del gioco.


Il 1999 è un anno proficuo per le pellicole a sfondo fantascientifico e, soprattutto, per quelle che trattano la questione della realtà nella realtà. Matrix ne è il capostipite, ma oggi noi parliamo di eXiStenZ. Innanzitutto va detto che per apprezzare il cinema di Cronenberg andrebbe conosciuta tutta la sua filmografia, tant’è che i suoi film sono un susseguirsi ed uno svilupparsi di idee che inizia, appunto, a sviluppare al principio della sua carriera e che con gli anni perfeziona e rende sempre più complete e dettagliate. L’idea che sta alla base di eXistenZ è semplice: questa realtà nella quale noi respiriamo è la realtà vera? Differentemente da Matrix, citato poco sopra, non v’è una dicotomia fra macchina e uomo, quindi un futuro così lanciato in avanti, bensì v’è una diatriba sanguinolenta fra due fazioni per un’ideale del tutto frivolo se non superfluo – ma non farò spoiler.

Guardando eXistenZ proviamo più stati d’animo, abbiamo più idee che si sviluppano nella nostra testa e che, man mano che il film avanza, vengono fagocitate da altre che fino alla scena prima non erano nemmeno in essere. Quindi è una pellicola che smuove la mente, che necessita ragionamento ed elasticità mentale, che fa riflettere e che si rivela scomoda allo spettatore; existenZ è un film che si lascia assorbire con una facilità disarmante e proprio grazie a questo lo spettatore si sente scomodo perché, a differenza di altre pellicole, questa l’ha assorbita proprio tutta. Cronenberg è riuscito ad impacchettare un film che una volta visto non si dimentica, anzi, ogni tanto ritorna in testa e ci spinge a porci delle domande: spinge, oltremodo, al volerlo riguardare sapendo pur bene che il film in sé è fastidioso, proprio perché non parla di una storia aliena al nostro essere. No, Cronenberg parla proprio di noi. E lancia una critica fortissima e vigorosa al mondo che, nel 1999, lui capì che sarebbe nato; l’uomo non sa se la realtà in cui vive sia effettivamente vera o falsa, immaginiamoci l’uomo che vive in una realtà da lui creata per fuggire dalla realtà in cui vive, pur sapendo che, forse, questa stessa realtà potrebbe essere solo una falsa realtà costruita per nascondere la vera realtà. E se questa è la critica di base che muove le fila dell’intero film, nel sottotesto ci sono altre innumerevoli critiche alla società di quegli anni che già si stava spingendo, con la fantasia e con la tecnologia, in un futuro di cui non si sapeva nulla. Inutile aggiungere che questa visione del regista nasce e cresce da una visione filosofica ben definita; in questo film Cronenberg lascia presupporre che conosca la filosofia di Schopenhauer e che la condivida, proprio perché va a metter mano in ambienti tipicamente schopenhaueriani come il velo di Maya (la vera realtà sotto una falsa realtà) ed un pessimismo quasi stoico che innalzi quei momenti ludici e felici fra l’andirivieni della crudezza della vita.

Cronenberg in eXistenZ usa lo sfondo del videogioco, che diventa una vera e propria realtà virtuale, per muovere l’intera pellicola che, a sua volta, ci fa notare, sì critiche asprissime di cui ho scritto sopra, ma anche una critica ferrata ad un futuro che lui (il regista) vedeva come prossimo e che puntualmente si è avverato. Nel 1999 i videogiochi erano già diffusi e vantavano già un pubblico accanito ed affamato di novità, ma è stato solo con gli anni futuri che ciò che prima segnava solo un divertimento – come uno sfogo dalla realtà -, poi dava linfa a lotte e guerre, prima mediatiche e poi anche fisiche, fra oppositori e favorevoli di questa nuova realtà, appunto, videoludica. Ma non si ferma qua Cronenberg, facendo emergere la possibilità che dalle parole e da qualche tafferuglio si potesse passare a veri e propri atti terroristici in nome di un “divertimento” che sempre meno punta a divertire, bensì ad anestetizzare la società in favore del controllo culturale.

Se queste parole non ci sono nuove non è un caso: dal periodo gonfio di cultura delle domande, delle infinite domande, siamo passati al periodo delle infinite risposte e della madre scienza risponditiva. Questo è uno dei tasselli più importanti nella filmografia di Cronenberg che, guarda caso, spunta in ogni suo film e, con forza assai vigorosa, in eXistenZ. Il film non punta a darci risposte, anzi, e non vuole essere un baluardo escatologico, ma gradisce porci delle domande che, forse, abbiamo smesso di farci in favore di risposte che non sappiamo nemmeno se essere vere o false. Cronenberg vuole farci riflettere e vuole scomporre la nostra sicurezza colpendoci in pieno. E con la scena finale ci lascia con una domanda: ma qual è la realtà? qual è la verità? mi sto facendo la giusta domanda?

Perché la risposta è il tratto di strada che ci siamo lasciati alle spalle: solo una domanda può puntare oltre.” – Jostein Gaarder

8 Aprile 2016

Crimson Peak (Del Toro)

Cari lettori,
in questo appuntamento parleremo di un regista che adoro; di un film che, per me, ha segnato la sua consacrazione nell’abilità di gestire la macchina da presa, la scenografia e la sceneggiatura; un film che lo eleva ed eleva tutta la sua opera. Una pellicola ricchissima di dettagli, anche finissimi, che rimbalzano negli occhi creando stupore e meraviglia. Per la regia di Guillermo Del Toro, un film del 2015: Crimson Peak.


1887. Edith Cushing, la giovane figlia di Carter Cushing, un ricco uomo d’affari, viene sorpresa durante una notte dal fantasma sfigurato di sua madre morta di colera. Lo spirito avverte la propria figlia: “Attenta a Crimson Peak“.

Quattordici anni dopo, Edith è ormai un’autrice che preferisce scrivere storie di fantasmi piuttosto che romanzi rosa, come vorrebbe il suo editore. Incontra ben presto Sir Thomas Sharpe, un giovane baronetto inglese in cerca di investitori, tra cui il padre di Edith, per finanziare una sua invenzione per estrarre l’argilla rossa dai giacimenti minerari. Non confidando nell’aristocrazia privilegiata e convinto che il prototipo di Sharpe non sia sufficientemente adeguato per essere finanziato, il Sig. Cushing respinge la proposta di Sir Thomas. Edith nota che Sir Thomas e sua sorella, Lady Lucille, portano abiti costosi ma fuori moda. Poco dopo, Edith ancora una volta è visitata dallo spirito di sua madre che le ripete lo stesso avvertimento di quattordici anni prima: “Attenta a Crimson Peak“.


Mi fermerei qui con la trama, perché questo film va vissuto ed assaporato, boccone per boccone, completamente ignari del suo essere. Quando andai al cinema a guardarlo, ci andai completamente vergine di ogni sua parte: non vidi trailer, non lessi sinossi, non mi interessai nemmeno del cast: completamente puro. E quel che mi attraversò non fu solo la bellezza visiva della pellicola, ma la filosofia di Del Toro, la complessità del suo pensiero che, se letto su di un saggio può risultare astruso, ma vissuto attraverso un film risulta essere leggero, fruibile e saporito. Mi piace definire Del Toro un regista filosofo e fra poco vedremo il perché.

A differenza delle altre volte, proseguendo potreste incappare in alcuni spoiler velati e non distruttivi, ma per parlare con senno di questa pellicola e del suo regista bisogna, quantomeno, avere una visione generale della cosa e noi andremo a fare proprio questo.

La recensione potrebbe finire con una sola parola: magniloquente.
Crimson Peak non è altro, a mio avviso, che forse il miglior film del regista che ha permesso allo stesso di danzare sulla sua dicotomia preferita: umano, bontà. L’uomo per Del Toro non è mai buono, mai, solo i bambini hanno una inconsapevolezza che li rende affascinati e quindi affascinanti da e per il mondo; Del Toro accosta sempre il male all’uomo, come se l’uno fosse la persona e l’altro il proprio bastone, ed in questo film tocca l’apice di questa trama. Del Toro, e qui mi spingo, pare avere una visione abbastanza nietzschiana dell’uomo, forse più cadente verso l’ala schopenahueriana: mette sempre in risalto quella volontà di potenza, quella volontà di vita dell’uomo, che lo porta sempre a compiere il male, rendendolo atroce e putrido, marcio per questa volontà, ma rendendolo al tempo stesso affascinante proprio per lo stesso motivo.

Due parole sulla casa: quella casa è il simbolo del pensiero di Del Toro. Bellissima, ma decadente; affascinante, ma intimidatoria; alla mente calda e accogliente, ma alla vista fredda e dura (forse il contrario, o forse è ambivalente). Insomma, la casa è il capolavoro del film, lo stesso Del Toro lo dice e ne è fiero; piena di dettagli anche sottili, piena di rimandi fiabeschi e citazioni: bellissima. La sua imponenza che sprofonda nell’argilla non è altro che un aiuto allo spettatore per il proseguo del film: questa poderosa e immensa bellezza che, oramai decadente, crolla sotto ciò che permette all’uomo di vivere; una volta visto il film troverete facilmente il filo rosso che collega la storia dei protagonisti con la storia della casa, non tanto in quanto casa, ma quanto rimando metaforico, quasi allegorico, della vita umana e dell’uomo “deltoriano”.

L’operazione cast è azzeccatissima: se Mia Wasikowska è la parte dolce, materna e fiabesca del film (almeno nella prima parte), Jessica Chastain è sicuramente la parte femminea, calcolatrice, fredda ed assolutamente affascinante della pellicola, allora il buon Tom Hiddleston non è altro che il cardine su cui si basa la narrativa. Assolutamente corretta, a mio avviso, la sua bassa iperbole nella recitazione, non tanto in termini relativi, bensì in termini assoluti, perché su di lui verte l’intera bilancia della pellicola e, sempre sulle sue spalle, verte la filosofia di Del Toro: l’uomo malvagio può tentare la redenzione, può cercare di combattere il proprio animo sporco e marcio, anche con gesti poderosi e di buona volontà, ma rimane aggrappato, appunto, alla propria volontà di vivere e di esistere, rimane appeso alla voglia d’essere in essere e non semplicemente d’essere e basta; da qui la discesa affannosa e la tentata ascesa di Tom nel finale che, però, non potrà mai essere completa – in quanto l’animo umano è sempre e comunque oscuro e marcio – e la detta ascesa, nietzschiana, è propriamente un male che solo gli uomini talmente malvagi da percorrerla potranno realizzarla, e Tom è a mezza via: troppo umano per poter vivere, troppo sensibile all’amore per potersi ascetizzare. Tutto ciò è sempre ricoperto da un velo, l’apparire del film (nello specifico potremmo parlare di Buffalo), che ricorda molto il pensiero schopenahueriano, il velo di Maya ed il pessimismo, che cinge ed ingloba in sé quella punta elevata di nietzschismo crudo e violento di cui sopra.

Quindi Del Toro ha confezionato un gioiello, sì con alcune pecche, ma con nessun grande difetto, che ne incorona la sua filosofia ed idea del mondo e la rende fruibile grazie ad un bellissimo horror gotico spennellato, qua e là, da del buon proto-fantasy.


Finisco qua la scrittura, perché altrimenti potrei scrivere per ore ed ore e scendere nei dettagli del film, tra fantasmi e personaggi secondari – che secondari proprio non sono -, ma cadremmo nello spoiler e questa è una cosa che voglio fermamente evitare. Piuttosto, se volete creare una discussione anche su alcuni punti volutamente non trattati in queste righe, scrivete la vostra idea qui sotto nei commenti, o sui social de Lautoradio o miei, che trovate qua attorno.

PS: ah, è disponibile il blueray: compratelo e stati attenti a Crimson Peak.

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