Dal libro di Valeria Parrella, Almarina.
C’è Napoli. Coi vestiti appesi ai fili nei vicoli, la pizza fritta e la carta che l’avvolge buttata a terra, il commerciante che ne sa sicuramente piu’ di te – della vita e della morte, s’intende. C’è il mare, Bagnoli e Posillipo. E poi c’è Nisida, sfacciata davanti alla gente perbene. E dentro Nisida, il carcere minorile, c’è Almarina (Einaudi 2019). Almarina è il nome della giovane ragazza rumena, nome che sembra tagliare a metà, per poi riunirli, l’anima e il mare, dove non le è neppure consentito andare. Elisabetta Maiorano è l’insegnante di matematica, è vedova da tre primavere e a Nisida, dove si aprono e chiudono sbarre e cancelli, per lei si schiude di nuovo quella vita messa da parte e chiusa per lutto. È Almarina con le sue mani rinsecchite e la tuta d’acetato a riportarla a galla e a dimostrarle che no, non siamo tutti uguali. Lei che aveva subito indicibili violenze nel paese d’origine, dentro le mura domestiche e nella fuga verso la “libertà” con il fratello minore, in quel camion scassato e maledetto, dove ogni essere dotato di pene aveva abusato di lei. In Italia per sfamarsi assieme al fratello è finita a Nisida. Le due s’incontrano e s’innamorano senza malizia alcuna, perché come dice lei stessa non deve per forza esistere un solo tipo d’amore, e l’eventuale curiosità morbosa del lettore dovrà farsene una ragione. Elisabetta l’adotta. O meglio, si adottano entrambe. Ognuno è figlio a modo suo d’altronde.
Valeria Parrella, con una prosa fatta di sentenze, come l’oracolo della Sibilla, pur senza essere sibillina, ordisce, servendosi di fitti fili di memoria, una trama che, nella sua linearità, è densa di contenuti forti, i quali non mostrano pietà, non assolvono, non manicheizzano, ma lacerano, insinuando incertezze ed esitazioni ove non ce erano, pongono altre domande e, infine, criticano nel senso originario del termine, cioè prendono parte, scelgono. Perché esistono cose che non possono essere lasciate all’ombra del dubbio né all’ombra stessa. Come ad esempio il fatto che il sistema repressivo carcerario è un modello ottuso, disumano e disumanizzante, specie nel caso in questione, dove i detenuti e le detenute sono minori, le cui grate non sbarrano a quadretti il confine del bene e del male, ma il disagio e l’ingiustizia sociale, da un lato, il disagio e l’onesto malessere, dato dall’impotenza, di chi vi opera, dall’altro. Di chi sceglie di lavorare in un carcere minorile, come nel caso della protagonista, di chi non lo sceglie, ma vi ci si trova per i casi della vita, di chi lo vive, da sempre, come una missione in un vuoto colmo di assenze, in primis dello Stato, poi della Famiglia e forse pure di Dio. E allo stanco ritornello del “si fa quel che si puo’” Valeria Parrella oppone le dinamiche dei desideri, dei bisogni, delle soggettività e non solo degli individui, che agiscono e reagiscono. Narra una storia intima, di maternità, amore, lutto, migrazione, famiglia assegnata col suo bagaglio non proprio a mano, ma piuttosto ingombrante e quella scelta, fatta di affetti e relazioni potenti e libere, come questa storia.