Recensione del libro:
Bobby Sands, Scritti dal carcere. Poesie e prose
(Ed. it. Paginauno 2020, a cura di Riccardo Michelucci ed Enrico Terrinoni)
Londra il 5 maggio 1981 annuncia: “ Mister Robert Sands è morto oggi alle 1,17 del mattino. Si è tolto la vita rifiutando cibo e cure mediche per sessantasei giorni.” “Ne danno il triste annuncio il governo britannico, la sovrana del Regno Unito e del Commonwealth e tutti i grassi porci in parrucca”.
Si’, l’ultima parte è stata aggiunta ora. Nessun governo ne ha dato “triste annuncio”.
Almeno è stato risparmiato lo spargimento di miele sul sangue: sono tempi di vacche magre con Mrs. Thatcher, niente va sprecato. Un ingrediente può, invece, essere usato in abbondanza, la propaganda. Bobby non si è tolto la vita. Bobby Sands e gli altri, i Blanket men di Diplock Court, hanno con ostinazione e orgoglio rifiutato, prima del cibo, il trattamento da criminali comuni nelle carceri britanniche, che il governo e quindi l’amministrazione carceraria imponeva loro al posto dello status, quello giusto e dignitoso, di prigionieri politici.
Non si intende qui ripercorrere la vicenda umana e politica, che è tutt’uno, di Bobby Sands, per questo “basta” leggere – chi ha lo stomaco forte – i suoi scritti dal carcere o guardarne i documentari. Si vuole solo riaprire uno spiraglio sulla memoria “delle bellezze di ferite lacerate”.
Blanket men. Chi sono costoro? È un conio di Bobby. “Gli uomini in coperta”, cioè vestiti solo con una coperta, da quattro soldi- si capisce, in quello schifoso freddo delle carceri britanniche, in mezzo al piscio, alla merda e agli spifferi, pur di non indossare la divisa infamante da criminali. I piedi dentro le Bibbie, che, quelle, non mancano mai. Ma quel riconoscimento di essere prigionieri politici non arriva, se non alla fine. E allora gli scioperi della fame dei Blanket men.
Viene tappata la luce, come se non bastasse – si prova a tappare il naso, ma il puzzo si respira lo stesso e dopo un po’ ci si abitua a tutto: l’amministrazione carceraria ha scovato una delle peggiori torture, sbarrare con delle lamine metalliche le finestre sul cortile, da dove si scorgevano uccellacci e uccellini, utili per crear metafore, insieme al cielo, plumbeo di solito. Il vento continua a soffiare, lui canta e porta da un blocco a un altro della prigione le ballate e i canti popolari degli irlandesi. La bocca non si tappa, è chiaro. Cantare e recitare ballate è una forma di resistenza corale alle torture da una parte e di umiliazione dei secondini dall’altra, poiché suscita in questi uno stupore invidioso.
Bobby ha lasciato la scuola a quindici anni, eppure, riesce a comporre versi e scrivere prose lucide nelle condizioni abiette e inumane delle sozze carceri imperiali. Scrive sulla carta igienica, sulle cartine da tabacco, nasconde i pennini ovunque entrino. Per non impazzire. Come Alekos Panagulis a Boiati. L’importante è avere sempre qualcosa da fare, per non farsi uccidere da loro e prendersela un po’ anche con quel disimpegno colpevole dei poeti fuori che “si son persi d’animo e sognano nei propri sogni (…) Poeti piu’ non ci sono”.
Non solo i compagni trovano posto negli scritti di Bobby. Le “puttane feniane”, cosi’ i secondini chiamano le compagne, sono imprigionate ad Almagh, si incontrano nei corridoi per i processi farsa, con “testimoni schifosi che giurano su Dio”. Alle compagne va il pensiero nelle notti di pioggia. Stupri, violenze. Si sa. E poi allora:
“Mi chiedono perché ti ribelli e combatti,
Perché ricorri alla violenza,
E perché le giornate trasudano morte
E parlano di buie battaglie.
Non sanno, quei poveri ciechi,
Cos’è una sporca Diplock Court.
Che tutti sappiano e che sappiano bene
Sono i ricchi a giudicare i poveri.
(…)
Sono i lavoratori forti e audaci
Uniti, legati, un unico corpo
La speranza di rompere la morsa del tiranno
E vedere il sole glorioso.
Il sole glorioso da cui nasce libertà,
Una libertà ottenuta a caro prezzo.” (B. S.)
In memoria di Bobby Sands, dei Blanket men e delle compagne di Almagh, contro ogni riprovevole mistificazione.
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