Tra vicoli e mercati, piazze algide e teutoniche, orme degli Imperi, e sudice borgate, Carlo Levi (1902-1975), medico antifascista torinese, nonché pittore e scrittore, autore del celebre Cristo si è fermato ad Eboli (1945), ne L’orologio (1950) ci conduce dinanzi a una rassegna di scorci, prevalentemente pittorici, dell’Italia post fascista. Dopo lo sgretolarsi del governo Parri, durato solo dal giugno al dicembre del 1945, per la mancata fermezza dello stesso e per l’ingegnosa dabbenaggine di altri, De Gasperi, politico rampante democristiano, ottiene il suo primo governo, primo dei tanti che ne seguiranno a suon di repressioni poliziesche, con Scelba Ministro degli Interni, mercimoni e vendita delle indulgenze.
Il fermento maggiore nell’Italia liberata – liberatasi del governo fascista ma non dei fascisti – è presente nell’universo contadino e in quello operaio. I contadini stanno rivendicando le terre attraverso le occupazioni dei latifondi, urge dunque la riforma agraria, tanto agognata da Togliatti, ma realizzata malamente nell’ottobre del 1950, a tre anni dalla strage di Portella della Ginestra. Sempre del ’50 è l’eccidio di Celano. Durante una manifestazione sindacale a Modena la polizia reprime brutalmente gli operai delle Fonderie Riunite.
Operai e contadini appartengono a quella parte di mondo antagonista di “Luigini”, cioè “la grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia con tutte le sue … miserie i suoi complessi di inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie e servono e imperano … i Luigini hanno il numero, hanno lo Stato, la Chiesa, i partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole”. I Contadini, invece, sono “quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano. Sono Contadini anche gli artigiani, i medici, i matematici, i pittori, le donne … gli intellettuali … la Resistenza è stata una rivoluzione contadina, la sola che ci sia stata mai: i luigini le sono saltati sulla groppa e ora pensano di averla addomesticata, ma qualcosa ci sarà pur rimasto, anche se le hanno messo briglia e morso”.
Le città, se possibile, sono in alcune loro parti ancora più povere. Nei loro anfratti regna promiscuità, lordura, violenza. Un miasma. E la magrezza. La magrezza è ovunque, anche tra i piccolo borghesi, anche tra gli intellettuali, tra i giornalisti, colleghi di Levi. È accompagnata da un senso di precarietà che la guerra non ha portato via con sé. Le sirene, di qualsiasi tipo esse siano, continuano a far accelerare il battito cardiaco. Non scandiscono più il tempo della vita, come facevano le sirene delle fabbriche, ma anche ora, il tempo della morte o almeno il suo timore.
Ci immergiamo con lo scrittore in un paese in rovina, in cui il quotidiano barcamenarsi alla ricerca di alloggio, di un pasto, di un lavoro assorbe tutta l’attenzione e le energie della maggior parte della popolazione. Un paese in cui le decisioni sono di fatto quelle del Comando alleato che si occupa della normale amministrazione e importa attraenti simboli di un differente modo di vivere, dalla moneta di scambio al jukebox e al flipper.
Con sguardo lucido Levi critica “il vezzo italiano di accusare i nemici delle proprie sconfitte” e un sistema burocratico che avversa i cambiamenti. Saranno gli uscieri del Palazzo, profanato dai nuovi arrivati, i primi a sentirsi sollevati “non avrebbero più dovuto trepidare al pensiero di folli riforme, di insensati cambiamenti, di crudeli epurazioni, di ridicole pretese di efficienza: non avrebbero più dovuto salutare qualcuno che non si peritava di umiliarli schivando gli onori, che li insultava rifiutando persino il titolo di eccellenza…”. L’ epurazione dei fascisti dalla pubblica amministrazione fu blanda e inefficace, lasciando al potere le alte cariche che avevano avuto le maggiori responsabilità. Ginsborg (1989) riferisce che “ 62 dei 64 prefetti in servizio nel 1960 erano stati funzionari sotto il fascismo, così come tutti i 135 questori e 139 vice: solo 5 avevano partecipato in qualche modo alla Resistenza”.
L’amarezza suscitata dalla constatazione di un complessivo eterno ritorno dell’uguale non ha tuttavia trincerato Levi e molti altri intellettuali e scrittori in una solitaria torre d’avorio, anzi li ha spinti ad un costante impegno politico e sociale, nonostante “ eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, poi di alcune riforme e poi di partecipare al governo e poi di non essere cacciati”.
LIBRI
C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal Dopoguerra ad oggi
CINEMA
Cristo si è fermato a Eboli (1979 Francesco Rosi)
Una vita difficile (1961 Dino Risi)