Recensione del libro di Luigi Meneghello, I piccoli maestri (1964).
“I piccoli maestri” (Luigi Meneghello 1964) racconta, con la volontà di rievocarlo, un mondo di forzosa necessità, la necessità di rivendicare quello che ai piedi della montagne era impossibile evitare: salire su, in montagna, e combattere, quasi sempre senza scarpe. Il nemico, quello nazi-fascista, ma, forse, non solo quello. Perché, a quasi vent’anni dalla Guerra di Liberazione, esisteva l’imminente bisogno di rimettere al proprio posto fascisti vecchi e nuovi. Come dimenticare la rivolta popolare a Genova contro il raduno dell’ MSI con la presenza del Basile, proprio nel ’60? Come contrastare la cosiddetta “passata di spugna”? In altri termini, chi era al potere prima, vi rimane. Se non tutti, la gran parte,
Siamo in montagna. In Veneto. Quel Veneto “diocan” contadino e genuino, che è metafora anche di altri luoghi. Che se ci tornano i fascisti torniamo sulle montagne, ma non rompete i maroni co sta roba dei governi, che so tutti uguali. Ma in che senso, ci si chiede? Nel senso che noialtri si ha da sempre da lavorare.
A descriverla cosi’ sembra un idolatrare il mondo contadino da parte di un intellettuale – il Meneghello, ma non è cosi’. E non perché non ci fosse la tentazione, ma perché gli stessi soggetti del pietoso buonismo cattolico lo hanno impedito, rimettendo al proprio posto i dottori colti, si’ insomma, i piccoli maestri, perché le montagne le conoscevano loro, non gli universitari. E per adesso quello contava. I sentieri su in montagna e la casa di Rosina.
25 aprile: la data finale di un lungo periodo iniziato l’8 settembre del 1943, un anno e mezzo, due inverni, in cui bisognava scegliere da che parte stare.
Non per tutti Resistenza ha significato prendere le armi, formare bande, salire in montagna: la Resistenza ha preso tante forme: a cominciare da chi, soprattutto donne, ha accolto i tanti soldati sbandati dall’8 settembre, ha dato loro cibo, alloggio, e ancor prima abiti civili, per non essere individuati dall’ex alleato diventato improvvisamente nemico.
Non sarebbe potuta esistere e durare così a lungo la lotta partigiana se non avesse avuto il sostegno, morale e materiale, di paesani, contadini, montanari, pastori, che segnalavano pericoli, davano indicazioni, dividevano il già scarso cibo con i combattenti. Un tessuto di antifascisti che senza prendere le armi si esponeva agli stessi rischi dei combattenti.
Le staffette partigiane, per lo più giovani donne, ragazze, che in bicicletta provvedevano al collegamento tra i diversi gruppi e a consegnare esplosivi, armi, materiale di propaganda . Come ci dice Lidia Menapace in “Io, partigiana” non era meno pericoloso, le staffette non erano armate e non avevano modo di difendersi.
“Se son buona…. “dice l’Agnese, la lavandaia che pedalando per la Romagna consegna sporte di bombe. Non una sedicenne, come tante staffette, una donna anziana, grassa e pesante, logorata dalla vita e dal lavoro, che accetta i compiti che le affidano, timorosa di non saper fare, di sbagliare. Sempre stanca, coi piedi gonfi e il batticuore, di poche parole, ma capace di agire con rapidità e decisione quando “viene il momento”. Con naturalezza sceglie da che parte stare, non ha bisogno di teoria o di istruzione, anzi si troverà “ad un tratto immensamente cresciuta, importante, responsabile davvero di azioni incomprensibili e di imprevedute decisioni”. Affronterà non solo la difficoltà di muoversi in territorio nemico, di approvvigionare sbandati e combattenti in un interminabile inverno, ma di trattare con gente che parla diverso, che sia pugliese o neozelandese. L’ultimo gesto di ribellione sarà verso chi mostra di non comprendere il senso della lotta partigiana, quelli che pensano che siano i ribelli a causare le repressioni, quelli con cui i sopravvissuti dovranno fare i conti.
Non avrebbe potuto durare la Resistenza senza i contadini, come i sette fratelli Cervi che con il loro padre avevano trasformato la cascina in un rifugio sicuro per partigiani e prigionieri evasi, di qualsiasi nazionalità. E che, tra un’azione e l’altra, producevano pane, carne, burro, miele, per quelli che ospitavano e per quelli che erano in montagna.
Una storia poco conosciuta, singolare e significativa, è quella di Giorgio Marincola, studente di medicina romano, ucciso in Val di Fiemme il 4 maggio 1945 nell’ultima strage nazista, 10 giorni dopo quella che festeggiamo come data della liberazione. Fu identificato in un primo tempo come sudafricano o americano, ex prigioniero unitosi ai partigiani, perché era di di pelle nera: impensabile a quei tempi un cittadino italiano non bianco. Chi ha letto Timira conosce la storia di Isabella e Giorgio Marincola, figli di un militare italiano e di una sposa “ temporanea” somala, una delle tante conseguenze del colonialismo italiano.
Alla Resistenza sul territorio si accompagna la guerriglia urbana, con azioni isolate che si intensificano man mano che il fronte risale verso nord, soprattuto nelle grandi città, colpendo il nemico là dove si sentiva più sicuro, senza dargli tregua, fino a trattare la resa con l’esercito nazista e liberare orgogliosamente le città prima dell’arrivo degli angloamericani. Esemplare di queste vicende il memoriale di Giovanni Pesce.
E infine una considerazione sulle tante donne combattenti, che non si riconoscevano nel modello fascista di sposa-madre obbediente, anzi volevano pensare, decidere e agire. Non furono poche, ma si cercò di farle sparire, respingendole nel ruolo di cura, di farle sfilare disarmate o con la fascia di crocerossine: il CLN in fatto di donne condivideva la morale corrente, come ci racconta in una sua recente intervista Walkiria Terradura, comandante di un gruppo partigiano nell’appennino umbro-marchigiano.
E Joyce Lussu, medaglia d’argento al valor militare, pretese che la consegna della medaglia avvenisse con una cerimonia pubblica e non a casa, quasi di soppiatto, come avevano programmato.
Non è certo una bibliografia, ed è molto parziale, anzi partigiana, solo qualche suggerimento di lettura. Per non dimenticare le tante facce della guerra di liberazione, di cui spesso si tende a sottolineare l’aspetto patriottico e di guerra ai nazisti rimuovendo quello di guerra civile e di classe.
Sicuramente oltre ai saggi storici sono molti i libri, di memorialistica e di narrativa, sulla Resistenza anche più noti e più importanti, a me premeva ricordare e invitare a leggere questi.
Lidia Menapace – Io, partigiana. La mia Resistenza. Ed Manni 2014
Renata Viganò – L’Agnese va a morire Ed. Einaudi 1949
Alcide Cervi – I miei sette figli Editori Riuniti 1955
Luigi Meneghello – I piccoli maestri Ed Feltrinelli 1964
Carlo Costa, Lorenzo Teodonio – Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola Ed Iacobelli 2015
Giovanni Pesce – Senza tregua La guerra dei GAP Ed Feltrinelli 1967
Claudio Pavone – Una guerra civile Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Ed Bollati Boringhieri 1994
Joyce Lussu – Padre, padrone, padreterno Ed Gwynplaine 2009
Intervista a Walkiria Terradura https://www.patriaindipendente.it/idee/il-racconto/la-comandante-che-rimontava-uno-sten-in-60-secondi/
Anche la filmografia resistenziale è ricca di titoli, che rappresentano i tanti modi e luoghi della partecipazione alla lotta partigiana. A cominciare da Paisà di Rossellini del 1946 che dà un quadro
a fresco.
Vale la pena di conoscere anche uno sceneggiato Rai del 1974, tra documento e fiction, su un’esperienza unica di governo partigiano nella Val d’Ossola.
Quaranta giorni di liberta’ (Pagine di diario della Republica dell’Ossola)