Recensione del libro “Pastorale Americana” di Philip Roth.
Il potere del tacchino
Newark, piccola e laboriosa cittadina del New Jersey, non geograficamente, ma umanamente distante dalla luccicante New York, ospita da tre generazioni la famiglia Levov, di origini e tradizioni ebraiche. Sono produttori e lavoratori di pelle, impresa familiare che garantisce ai Levov la possibilità di condurre una vita agiata e un’esistenza tranquilla, lontana dal caos delle grandi città, corrotte dal vizio e dal cattivo gusto, nonché da nuove bizzarre rivendicazioni. Siamo negli anni Sessanta. Fine decennio. Presidenza Nixon. Guerra in Vietnam. I veterani della Seconda Guerra Mondiale sono ancora storditi dalle bombe e dalle droghe, lasciati a se stessi e a spese di chi sta loro vicino. Altri ne torneranno dal Vietnam in condizioni ancora peggiori.
Protagonista, pur non indiscusso, è Seymour Levov, figlio del monolitico Lou, patriarca del clan Levov. Bellissimo, Seymour ha un fisico talmente rispondente ai canoni nordici che i suoi compagni di classe lo chiamano Swede, lo Svedese. Ha sposato Miss New Jersey, Dawn Dwyer, la cui famiglia irlandese è rigidamente cattolica, ma, anche se entrambi sono “post”, l’uno “post-ebreo” e l’altra “post-cattolica”, la religione interferirà nelle loro vite. La giovane Dawn ha di che soffrire per essere considerata e valutata solo attraverso un’ottica estetica. Sente come macigno l’aver partecipato a Miss America e decide di lavorare in autonomia per emanciparsi, allevando bovini di razza, nulla a che fare con le reginette di bellezza. Hanno una figlia, Meredith. E’ graziosa, non bella come i suoi genitori, molto intelligente, ma dai modi quasi urticanti. In perenne conflitto con l’inarrivabile madre, riesce ad avere un contatto senza contrasto con lei solo tramite un toro del suo allevamento alla quale da piccola si è affezionata.
Seymour lo Svedese, atletico come pochi, è rimasto nella mente dei suoi compagni di scuola proprio per la sua bravura negli sport e la sua perfezione estetica, oltreché morale: buono, gentile, valoroso, onesto. Un americano fatto e finito. Zuckerman, ex compagno di scuola, lo incontra nel 1996, trent’anni dopo la vicenda che sconvolse la vita dei Levov. Lo Svedese ora si è risposato e ha due figlie. Meredith è morta e con Dawn si sono separati. Cosa è accaduto di cosi’ extra-ordinario nella vita di Seymour? Una bomba. Una bomba messa dalla figlia Meredith che causerà la morte di una persona. La latitanza di questa disgraziata figlia, né cattolica, né ebrea, ma giainista. Un po’ ottusa e sicuramente manichea. La vita dei Levov è al collasso. Cadono i veli, le certezze e le convinzioni che una presunta pastorale americana garantiva. Pastorale non è solo la lettera che il pastore invia al suo popolo, ma anche il bastone che ha il pastore per guidare le sue pecore. Lo Svedese vuole che Zuckerman scriva la sua storia, ma non farà in tempo a raccontarla in prima persona, perché due mesi dopo il loro incontro morirà e quella che leggiamo gli è stata raccontata dal fratello minore, l’avvocato che, secondo il vecchio padre Lou, “colleziona solo divorzi”, ma anche colui che rappresenta un lucido occhio esterno alla famiglia Levov.
Tradimenti, inganni, finzioni squarciano la famiglia Levov almeno quanto un coltello la pelle che lavorano nella loro impresa. La maggior parte di essi Roth li rivela nell’ultima delle tre parti che compongono il romanzo, “Paradiso Perduto”. Che cosa è il Paradiso qui? Un richiamo al classico Milton presumibilmente. Il Paradiso non è la felicità perduta. E’ la liberazione dalle costrizioni e convenzioni sociali che le religioni impongono e le società richiedono. Gli ultimi capitoli, infatti, raccontano, attraverso una lunga cena, che sembra essere la riproduzione de l’ Ultima Cena, oltre ai segreti della famiglia, anche scorci di vita di personaggi eterogenei che compongono l’America. Una vera e propria cena – pastorale, dove si mangia tacchino. Perchè, secondo Roth, la vera Pastorale americana, quella che riunisce per ventiquattro ore gli americani, è la festa del Ringraziamento, del tutto desacralizzata, dove ognuno si spoglia delle sue tradizioni, convinzioni e risentimenti di sorta. Il Thanksgiving simboleggia in ottica pan americana la famiglia Levov, cosi’ ricca di contrasti e meticcia, come la loro nazione, nella quale Roth è si’ nato e vissuto, ma dalla quale pare volerne prendere le distanze. Basti leggere la pagina in cui descrive il giorno del Ringraziamento. La prosa in lingua originale è cosi’ poco americana e molto piu’ europea e latineggiante di quanto lo sia nel resto del romanzo, a indicare una sottesa estraneità del sempre laico Roth, ebreo e ateo. Da qui, probabilmente, la scelta di questo nome come titolo del romanzo.
Numerose, d’altro canto, le perle linguistiche che conia, come i nomi parlanti dei quali è cosparso l’intero romanzo che, purtroppo, in traduzione perde un po’ di questa vivacità linguistica ironica e caustica, tutta in stile Roth, vero pastore della pastorale americana.
Pastorale Americana è un romanzo di Philip Roth, pubblicato a New York nel 1997. Capolavoro vincitore del Premio Pulitzer nel medesimo anno. La traduzione italiana per Einaudi è di Vincenzo Mantovani.
Sconsigliato vedere l’omonimo film.
Consigliato leggere Paradiso perduto di John Milton.
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