A tre anni dal referendum per l’acqua bene comune. Cosa è stato realmente fatto.
Sono passati esattamente 3 anni dal referendum del 12 Giugno 2011 per l’acqua bene comune (cioè per l’abrogazione della legge sulla gestione idrica e della legge che permetteva alle aziende private di gestione di avere guadagni dalle bollette), contro la legalizzazione del nucleare e contro la legge sul legittimo impedimento. Quel giorno quasi 25 milioni di persone (il 95,3% dei votanti) risposero che l’acqua è un diritto per tutt* e non una merce su cui speculare.
Attraverso quel voto si è riusciti ad impedire che venisse imposto l’obbligo di privatizzare il servizio di gestione idrico ed è stata sottolineata la volontà da parte de* cittadin* di mantenere l’acqua un bene comune, in quanto troppo essenziale alla vita per essere trattato come merce su cui speculare sopra e per cui ci sia qualcuno in grado di decidere a chi negarla o meno.
A 3 anni dal voto, è stata concretamente attuata la decisione del referendum?
A Novembre dello stesso anno comincia il mandato di Monti. Non ha avuto bisogno di essere minimamente conosciuto dai cittadini per diventare premier, figuriamoci se poteva sentire il dovere di dare importanza ad un referendum popolare di pochi mesi prima. E 7 mesi dopo il 12 Giugno, sotto la spinta del motto del governo secondo cui era necessario liberalizzare tutto, il sottosegretario alla presidenza, Catricalà, affermava la necessità di aprire, come gli altri settori, anche quello idrico al mercato.
E da qui in poi abbiamo assistito al susseguirsi di scandalose dichiarazioni, come quella pronunciata dall’allora ministro dell’economia Passera, che, come a voler svelare un trucco di magia (e di inganno), ha confessato: “Il referendum ha fatto saltare il meccanismo che rende obbligatoria la cessione ai privati del servizio di gestione dell’acqua, ma non ha mai impedito in sé la liberalizzazione del settore”. Di quale poi sia la volontà collettiva riscontrata dagli esiti del referendum, al ministro importava evidentemente molto poco.
Subito dopo, Passera ha trovato l’appoggio dell’amico Polillo, sottosegretario all’economia, che ancora più sincero e spudorato ha detto: “Il referendum sull’acqua è stato un mezzo imbroglio. Sia chiaro che l’acqua è e rimane un bene pubblico. E’ il servizio di distribuzione che va liberalizzato.”
Ma forse, anche dopo queste affermazioni, non a tutti era ancora chiara la situazione. Perciò Clini, ministro per l’ambiente di Monti, ha ritenuto di dover essere un po’ più chiara e ha spiegato: “La gestione dell’acqua come risorsa pubblica deve corrispondere alla valorizzazione del contenuto economico della gestione”. Come a dire che l’acqua in sé può anche non essere fonte di profitto, ma siccome per noi ha un valore ben preciso in quanto merce, il ricavo per il privato lo camuffiamo sotto forma di spesa di gestione.
Sul piano pratico, queste affermazioni hanno avuto come conseguenza che, con il governo Monti, sono state trasferite “le funzioni di regolazione e controllo dei servizi idrici” all’Autorità dell’Energia Elettrica e del Gas (AEEG), la quale ha il compito di favorire lo sviluppo del mercato e della libera concorrenza dell’elettricità, del gas e, grazie a questo provvedimento, anche del servizio idrico.
Dopo il referendum non in tutte le realtà territoriali è stata introdotta una gestione del tutto pubblica dell’acqua, e grazie ai fondi pubblici ricevuti attraverso l’AEEG, le aziende private sono state avvantaggiate economicamente rispetto a quelle di diritto pubblico.
Per esempio due situazioni diverse si trovano se guardiamo chi gestisce il servizio idrico a Napoli e chi a Torino.
Nella città Napoli, dopo il referendum, è stata veloce la trasformazione della Arin S.p.a. in ABC Acqua bene Comune Napoli, azienda speciale di diritto pubblico, senza scopo di lucro. A Torino invece il gestore, prima del referendum, era SMAT S.p.a. e lo è tutt’ora. Una società che in uqanto privata ha interessi ad investire al di fuori del servizio di gestione idrica. Investimenti che però vanno a pesare sulla qualità del servizio stesso e a gravare sui costi che gli/le utenti dovranno pagare comunque all’azienda.
A Perugia è Umbra Acque a gestire il servizio idrico. E’ un’azienda per quasi metà di proprietà privata (il 40% è di proprietà della società romana ACEA S.p.a.) e per il resto è controllata dal Comune di Perugia e altri soggetti pubblici. Condizioni queste che permettono alla parte privata della società di far ricadere le proprie speculazioni sui soggetti pubblici (come si per esempio visto con la vicenda di APM, azienda gestrice dei trasporti pubblici a Perugia, da poco fallita per motivi privatistici).
Non era certo questa la situazione che quella enorme parte de* cittadin* si aspettava di trovare dopo 3 anni da quando ha messo la croce sul SI perché venissero abrogate quelle leggi che avrebbero permesso ancora la speculazione su un bene che di fatto è e deve restare un bene comune per il futuro di tutt* e non una merce per il guadagno di pochi.
Ma al posto di quelle leggi ne sono fatte altre, senza tenere minimamente conto del volere collettivo, senza un minimo di pudore e di democrazia. Forse è perché ormai siamo entrati nella democrazia del capitale, dove non esiste più la figura del cittadino, ma solo quella del consumatore, e solo chi ha accesso ad un bene o un servizio, essenziale o superfluo che sia, può decidere su come gestirlo, e se privare qualcuno o meno di usufruirne. Certo è, però, che da questa logica, da questa “democrazia” del capitale, se ne può ancora uscire.
L.F.