“(…) experientur tamen homines mutuo auxilio ea, quibus indigent, multo facilius sibi parare, et non nisi iuncti viribus pericula, quae ubique imminent, vitare posse”
(Scholium, Prop. XXXV, Ethices Pars IV, B. Spinoza)
“Gli uomini sperimenteranno, tuttavia, che con l’aiuto reciproco possono molto più facilmente procurarsi le cose che mancano loro, e che, solo uniti nelle forze, possono evitare i pericoli che incombono ovunque”
Scatta l’arancione, il rosso e poi il bianco. Latte intero. Non macchiato, indifferente il recipiente e il calore, se freddo, tiepido, bollente. Ognuno ha i suoi gusti. Il semaforo è scomparso, immerso nel bianco latte e, insieme a questo, un malcapitato cittadino alla guida della sua auto. Lei è lì ferma al semaforo. Lui è cieco e vede tutto bianco.
Cecità, di Josè Saramago, il cui titolo originale è Ensajo sobre a Cegueira, è un saggio sotto forma di romanzo, pubblicato nel 1995. Saggio non come trattato scientifico o filosofico, ma come rassegna di esempi che descrivono alcune manifestazioni del comportamento umano in una situazione di estrema precarietà fisica, mentale e ambientale.
In un’imprecisata città, forse portoghese e in epoca, si presume, contemporanea a quella dell’autore mentre scrive, un’epidemia di cecità, bianca e non nera, misteriosa, invade le vite di chi vi abita. È un contagio che si diffonde tramite la sola vista e sembra essere iniziato in uno studio oculistico, per quanto se ne sappia: l’uomo della macchina al semaforo è il primo che ne è affetto e viene da lì. Da questo momento il contagio segue a effetto domino e il Governo decide di isolare in quarantena i ciechi in un vecchio ospedale psichiatrico, sotto il controllo dell’esercito. L’unica persona, in tutta la città, inspiegabilmente immune dal contagio è la moglie dell’oculista, qui sempre chiamata come “la moglie del medico”, che avrà un ruolo centrale come leader del gruppo e delle altre donne: saranno loro a guidare la liberazione dall’inferno dell’improvvisata “colonia penale” del governo.
La malattia da sempre ci spinge a interrogarci, e ancor di più quando colpisce una collettività, con l’antico senso di colpa: cosa ho fatto per meritarmi questo? Quasi che le malattie siano punizioni di un’entità superiore, per un singolo o per un’intera società. Non molto diversa la reazione umana oggi, la quale attribuisce alla natura violata la reazione che un tempo attribuiva alla divinità. Quanto alla cecità non ci potrà rivelarne la causa né la scienza (l’oculista) né la religione, anche se Saramago ci suggerisce che forse si è ciechi senza accorgersene e che non esistono i ciechi, ma la cecità.
Come è intuibile, la colonia penale per i contagiati è presto riempita nei suoi due padiglioni e manca dei più elementari servizi: il cibo è consegnato in razioni ridicole, i bagni sono fogne intasate e le camerate sudice cucce trasformabili in alcove occasionali. La legge del più forte non tarda a farsi sentire e la violenza, sia dei militari, che uccidono qualsiasi cieco varchi la porta, sia dei “ciechi malvagi” è in continua escalation. Le prede preferite, strano a dirsi, i corpi delle donne. I cadaveri dei morti sono stracci come i loro vestiti pidocchiosi. I compagni di camerata hanno l’ordine dell’altoparlante governativo di seppellirli. Come? Che trovino il modo.
Emerge l’importanza del lavoro di cura, non solo cura della malattia, ma in senso femminista il prendersi cura degli altri. Rappresenta quella morale materialista che si esprime nel mutuo aiuto, nell’alleanza con gli altri, nell’agire secondo le circostanze piuttosto che seguire i principi astratti. Come ricorda Donna Haraway (cit. di A. Ghelfi in http://effimera.org/le-città-e-lantropocene-di-andrea-ghelfi), “politica del fare comune non è che una capacità di agire con, partendo da problemi specifici e contesti definiti”.
Il lavoro di cura appartiene alle donne: a lato della razionalità attiva della moglie del medico troviamo la solidarietà emotiva della bella ragazza con gli occhiali, pronta a consolare: avvicina il suo letto a quello del bambino, che, come tutti i bimbi ai quali non si dà risposta, ha smesso ormai di piangere e non cerca più la mamma. E se darà sollievo al desiderio degli uomini, vorrà scegliere i suoi partner. Di grande potenza la dichiarazione lapidaria di una delle donne stuprate, quando messa alla prova da una sua compagna risponderà: “dovunque andrai, verrò”.
Fuori, i cittadini, se così si possono chiamare i contagiati privi di qualsiasi diritto, non hanno vita più facile. Muoiono sbranati dalle bestie o uccisi dai militari e, man mano che si diffonde a macchia d’olio il contagio, non hanno più scorte alimentari di nessun tipo e sono esposti a tutti i pericoli e agli ostacoli presenti in città.
Come sempre, in caso di epidemie così rapide a diffondersi anche se non letali, la società dei “sani” non vuole essere contagiata, quindi la prima reazione è mettere in isolamento gli infetti e quelli che sono stati a contatto con loro. “E’ utile rileggere il capitolo di Sorvegliare e punire sulla gestione della peste in Europa per rendersi conto che da allora le politiche non sono molto cambiate. A funzionare qui è la logica della frontiera architettonica e il trattamento dei casi d’infezione nella classiche enclave ospedaliere. Una tecnica che non ha ancora dimostrato di essere del tutto efficace” (B. P. Preciado, cit. da “Le lezioni del virus” Internazionale 1356, 30 aprile 2020). E tuttavia, viene applicata continuamente, che si tratti di peste, aids o coronavirus; anzi in questo caso si recludono i sani e viviamo oggi nelle nostre case come in centri di detenzione parcellizzati.
Saramago narra questo flusso del “mal bianco” in terza persona, attraverso le esperienze del primo nucleo di contagiati provenienti dallo studio del medico. La sua scelta, in ordine con il genere del saggio, è quella di non chiamare per nome nessuno di loro. Sono sette persone e ognuno ricopre un ruolo ben definito sia durante l’internamento, che, in generale, in società. Tutte le categorie sono rappresentate, dai borghesi ai vecchi alle donne “perbene” e a quelle “permale”. Perché “anche solo pronunciare un nome può costituire la forma più straordinaria di riconoscimento, specialmente quando si è diventati dei senza – nome, quando il proprio nome è stato sostituito da un numero, o ancora quando non si è degni di essere chiamati in nessun modo” (J. Butler, Vita buona e vita cattiva, in L’alleanza dei corpi, trad. it. N. Perugini e F. Zappino).
Ma cos’è questo “mal bianco”? Perché Saramago al culmine della sua carriera scrive di un’epidemia di cecità, per giunta bianca? Perché non nera? Non si può affermare con certezza, ma la suggestione esiste e riconduce alla vita dello scrittore da giovane, sotto il bianco regime di Antonio de Oliveira Salazar. Il dittatore, morto in odore di santità perché, si dice, ancora vergine per un voto fatto alla Madonna da fanciullo, ha fatto coincidere la fine del regime con la sua morte. Il suo governo fascista era bianco, essendo il più cattolico di tutti. E se n’è andato da solo, non è stato destituito né abbattuto da nessuna rivoluzione, proprio come il “mal bianco”.
Al di là delle congetture sui riferimenti storici, lo stile dello scrittore portoghese si rivela secco, aspro e con la punteggiatura tipica degli scrittori lusitani. Le virgole scandiscono le pause, le parole, gli interventi di buon senso dell’autore, i proverbi popolari. Non esistono i dialoghi come in una partitura teatrale, ma esistono i pensieri, come nella tradizione inglese di primo Novecento. Questa abilità nell’incastrare i personaggi mostra molto bene come, in fin dei conti, pensieri e parole riescano a condurre le azioni verso comuni obiettivi, verso una cooperazione itinerante che, oggi più che mai, deve farsi potenza.
Opere letterarie sul tema epidemie:
G. Boccaccio, Decameron
D. Defoe, Diario dell’anno della peste. 1722
A. Manzoni, Storia della colonna infame. 1840
A. Camus, La peste. 1947
Cinema
S. Soderbergh, Contagion. 2011