Perché abbiamo letto Serotonina di Michel Houellebecq (La nave di Teseo 2019)?
La propaganda editoriale lo propone come “capolavoro: serrato, lirico, a tratti umoristico, crudele, chirurgico, profetico. Romanzo d’amore, politico, esistenziale e, soprattutto, radiografia del futuro prossimo che incombe sulle nostre vite”. Non potevamo certo perdere uno che “sta sempre dalla parte opposta, ….che coglie un aspetto della realtà invisibile agli occhi del conformismo prigioniero del perbenismo” e in più anticipatore del fenomeno dei Gilet gialli.
Esagerati!
Un romanzo mediocre, un frullato di ingredienti atti a compiacere i facilmente scandalizzabili reazionari di oggi, ad esaltare le orianefallaci orfane di Sottomissione.
Qui un io narrante, che è difficile distinguere dall’autore, ci ammannisce la sua tristezza esistenziale non tanto per la caduta del desiderio sessuale, portata all’impotenza dall’uso dell’antidepressivo a base di serotonina, quanto dal rimpianto per l’incapacità personale di trattenere vicino a sé le donne che ha amato.
Ma per evitare di somigliare a un Harmony niente di meglio che qualche manciata di fantasie sessuali e superflue descrizioni di accoppiamenti multipli della sua scostante amante giapponese con umani e cani. Altrettanto non necessario è l’episodio di pedofilia spiato dal protagonista e descritto con ampiezza ingiustificata. Salvo che non ci fosse da raggiungere un numero di pagine prestabilito.
Il Claude-Florent protagonista è un agronomo 46enne, come Houellebecq (oggi 60nne), che dopo un lungo periodo al servizio della Monsanto è funzionario del Ministero dell’agricoltura. Deluso dalla sua condizione di vita, pianta lavoro, amante e casa e sparisce nella metropoli parigina. Naturalmente non gli mancano mezzi economici: i genitori borghesi, che poco l’hanno amato, soddisfatti dell’amore di coppia ma incapaci di includervi il figlio (come per H.) gli hanno lasciato una ricca eredità e a lui basta avere una stanza d’albergo dove sia consentito fumare e un supermercato con una sufficiente varietà di hummus.
Alla ricerca del tempo perduto, ci mette al corrente delle sue relazioni, sempre concluse per la sua ignavia di spettatore della vita, incapace di impegnarsi. C’è da dire che i suoi rimpianti sono spesso dedicati a pezzi di corpi e performance sessuali più che a donne, di cui in qualche caso non ricorda neanche il nome.
Nell’illusione di un futuro che replichi il passato, rintraccia Camille , la giovane veterinaria con cui ha convissuto molti anni prima in Normandia, (quella che, sconvolta dalla visione dei pulcini triturati in un allevamento di ovaiole, si era rifugiata in un McDonald: troppo innocente per considerare la fonte degli hamburger?) scopre che è madre di un bambino e elabora un piano di riconquista che prevede come primo punto l’eliminazione del figlioletto: solo facendo il vuoto può essere oggetto di amore.
E i Gilet gialli? Tutt’altro che profetico di un futuro prossimo, descrive una protesta degli allevatori normanni -del 2015- con blocco stradale, latte versato, armi e trattori, capeggiata dal suo romantico amico Aymeric, una sorta di feudatario. Anch’egli ricco ereditiero, frustrato, oltre che come uomo, come agricoltore al recupero delle tradizioni e delle eccellenze del territorio.
Bisogna riconoscere all’autore la consapevolezza dell’impossibilità, nelle condizioni attuali, di praticare una agricoltura sana e redditizia, e della inconciliabilità dell’agroindustria con l’agricoltura di qualità; così come la contrapposizione fra ignoranza di molti ecologisti radicali e le affermazioni insostenibili di “bugiardi patologici” quali i dirigenti della multinazionale. Fa pensare più a Josè Bové che alle rivolte di questi giorni, anche se sappiamo che gli allevatori, tra i contadini, sono terreno di affermazione leghista.
Una narrazione nel suo insieme stanca, ricca di dettagli inutili, che dovrebbe forse esprimere la mancanza di speranza della società europea attuale, utilizzando un linguaggio sessista e omofobo, sprezzante nei confronti delle donne.
Bastasse essere un reazionario potrebbe essere un buon romanzo.
Un senso di vago nulla rimane al termine della lettura di Serotonina del tanto osannato profeta francese del XXI secolo. Non v’è traccia di profezia in esso. Una sequela di flussi “egotici”, spinti da un insensato e immotivato ormone macho, che giunge a ridicolizzare se stesso. Una scrittura che presenta conati di originalità abortiti, poiché privi di prospettiva spaziale, di ottica aperta oltre l’io. Non desta alcun interesse neppure con la fitta rete di coltissime citazioni letterarie, inserite ad hoc a conferma del tasso testosteronico permeante il libro.
Il turpiloquio come stile quasi costante è di ardua sopportazione, se, invece che provocare crepe e riflessioni, si riduce a volgarità e banalità. A ciò si aggiunge una chiara imitazione, anzi piuttosto uno scimmiottamento, del profeta del secolo precedente, Celine che, sì, utilizza il turpiloquio, ma incide, taglia, e, seppur con un’ottica tutta sua, osserva il mondo circostante, si sporca le mani nel quotidiano.
Il protagonista borghese depresso in questione ha dalla sua almeno una lucida “coscienza di classe” e non pecca di ipocrisia.
Rimane, tuttavia, da chiedersi se la forte angoscia che conduce alla depressione, che qui segue come Pollicino l’esistenzialismo francese di Camus, sia stata provata o almeno vista nelle vite altrui. Perché la scrittura è del tutto insufficiente a suggerirlo, figurarsi a rivelarlo.
Suggerimenti:
Lettura
L. F. Celine, Morte a credito, 1936
Cinema
M. Ferreri, L’ultima donna, 1976