18 Dicembre 2023

#15 – Il muro del tempo

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Il muro del tempo

Eco dei latrati di un cane tra il nulla e il deserto.

Un racconto palestinese.

Qualche riflessione su “Un dettaglio minore” di Adania Shibli (tr.it. Monica Ruocco, La Nave
di Teseo, 2021)

Qui non si chiama nessun’anima, né viva né morta. Sono senza nome. Sembra che non
siano degne di averlo un nome, le persone che attraversano le storie narrate da Adania
Shibli. E alcune non lo sono davvero. Ce n’è più d’una non umana.
Eppure, ci sono, delle persone, anche quelle che non si vedono, donne e uomini. E soldati.
Questi più numerosi. E c’è una terra, mezzo desertica, mezzo abbandonata, mezzo
devastata, mezzo lacerata. Si chiama Palestina. Almeno così si chiamava nel 1948, quando
ancora non era completata la fondazione dello Stato d’Israele. Lo Stato ebraico.
Non si ripercorrono qui le vicende della terra palestinese, contesa, anzi, a voler chiamare
le cose con il loro nome, strappata, con ladrocinii e violenze e omicidi, ai nomadi arabi
beduini, che vi vivevano al tempo e che oggi si chiamano, a buon diritto, palestinesi – non più
nomadi, come vorrebbe tanto Israele, che lo voleva allora e lo vuole oggi. Sarebbe troppo
lungo raccontare tutto, non è la sede. Meglio affidarsi, in un abbandono, alla voce censurata,
anche in Occidente, di chi vive dalla parte sbagliata del muro, quel muro che non c’era un
tempo, quando bastava del filo spinato – che attraverso le trame permetteva almeno di
scovare un orizzonte non di cemento – a segnare i confini, sempre stabiliti dalla parte che si
autoproclama giusta. Manco a dirlo, quella israeliana.
Non serve interpellare nessuno per loro. Dice che “vanno schiacciati”, gli insetti, il
comandante dei soldati di Sion accampati al confine con l’Egitto: costui è il protagonista
maschio, ma non uomo, della prima storia del racconto, e sta parlando dei ragni velenosi
che dimorano nella sua tenda e nella sua carne, dove si sono trovati a proprio agio. Sono i
“nemici”, invece, non gli insetti, che il comandante apostrofa nei modi peggiori: sono queste
le “bestie che vanno eliminate”. Non andava certo chiesto, allora come oggi, alcun
permesso, prima di occupare le terre, che le tribù nomadi locali hanno percorso in lungo e in
largo e vissuto da sempre – pur se all’epoca senza fissa dimora né confini -, figurarsi.
Il racconto che ci propone la scrittrice palestinese Adania Shibli ha una struttura semplice
solo in apparenza, poiché rivela a un occhio attento, un sapiente equilibrio tra alcune
tecniche narrative, come quella del flash-back o del racconto di cronaca nera con narratore
esterno super partes: entrambe le tecniche forniscono un itinerario alla trama, essenziale e
allo stesso tempo appannaggio dei dettagli, una mappa che viene percorsa da visioni
oniriche appena tratteggiate, con mano leggera, senza calcare.
Non ci si può perdere tra queste pagine. Esse sono, infatti, abilmente distinte in due parti,
differenti al punto da sembrare due storie di due autrici. La prima parte narra un delitto
avvenuto nel lontano 1948-49, quando i coloni sionisti, appartenenti a un gruppo
paramilitare, dopo la guerra con l’Egitto, “misero in sicurezza” il confine con lo stato dei
vecchi Faraoni, e a loro dire lo “ripulirono” dai popoli arabi nomadi, creando la colonia di
Naqab nel Negev; la seconda è di ambientazione contemporanea, nella Palestina occupata
per la maggior parte del suo territorio, ridotta a una prigione a cielo aperto, sotto i raid, con
l’embargo e una libertà di movimento ridicola, se non assente. La protagonista, senza nome,
una giovane donna che vive da sola in una non meglio identificata zona A, lavora in un
ufficio e la notte ha il vizio di leggere. Si è imbattuta così nella storia che noi abbiamo letto
nella prima parte: una giovane donna araba, catturata dai soldati sionisti nel Negev, viene
violentata, stuprata, umiliata dal loro comandante, col plauso generale, fino a farla crepare
col fuoco di una pistola, non prima di averla trascinata nuda sul ciglio della buca, scavata per
il suo cadavere. Con lei c’era un cane, che ha tentato ogni via per difenderla, ma invano. Lo
stesso cane, forse, che coi suoi latrati tormenta ogni notte, tra sogno e visione, la giovane
donna che legge: vuole spingerla a raccontare della sua padrona, ammazzata da un animale
vero e proprio, quello in divisa cachi. Il delitto accadde lo stesso giorno della sua nascita,
solo di venticinque anni prima. Ecco il “dettaglio” che l’attira. Una data di nascita, la sua. Un
atto di narcisismo. Si sente spesso in colpa a dare troppa importanza a dei dettagli nel bel
mezzo di tragedie: afferma di essersi abituata alle bombe, ai danni che arrecano, perfino alle
morti che trascinano con sé. Non riesce, però, a rassegnarsi alla polvere, che, a esplosione
avvenuta, si va a depositare sulla scrivania. Tuttavia, da brava lettrice, sa che, in fondo, solo
i dettagli veicolano la sostanza, che essa sia di un evento, di una storia, di un quadro, di un
essere umano.
Costa caro scavare per fare emergere la verità. Troppo. Con quel documento d’identità
che ha lei poi, quello della parte sbagliata: lei della zona A non lo può usare fino alla zona C,
dove deve recarsi per fare ricerche sul delitto, sotto le mentite spoglie di ricercatrice. Non ha
scelta: deve accettare di barattare il suo documento con quello di una collega, se vuole
almeno tentare di superare i numerosi checkpoint – tanto le donne palestinesi sono tutte
uguali per i soldati israeliani. Non è facile muoversi da una parte all’altra della regione per
chi è palestinese. E non è facile comprenderlo per noi visi pallidi, occidentali in Occidente, e
occidentali fuori: a noi basta, si fa per dire, un gruzzoletto, più o meno discreto, e via – certo
tutto dipende da dove vieni più che da dove vai, che, a sua volta, non sempre coincide con
dove vorresti andare.
Per i palestinesi in Palestina non è praticamente prevista libertà di movimento. Lì arde da
troppi decenni un inferno, dove necessità, anche banali, sono loro negate, o controllate al
punto da far sì che chi avrebbe diritto ad accedere a strade, scuole, ospedali, luoghi
d’intrattenimento o cultura, spesso vi rinunci in partenza, per evitare problemi sempre in
agguato, il carcere preventivo e processi sommari. Come si comprende dalle immagini che
tratteggia la stessa autrice del racconto, vi è una diffusa abitudine all’oblio di una parte della
quotidianità, quella della spensieratezza e del tempo libero. Ne basta una di libertà, quella di
andare a lavorare per campare come meglio si può: e in quelle condizioni, è impresa eroica,
se solo percorrere in macchina, per esempio, la strada da Ramallah a Tel Aviv, può costare
la vita.
Questo racconto risale al 2021. Sono trascorsi solo due anni.
Dallo scorso ottobre, il massacro del popolo palestinese ha spazzato via ogni cosa, oltre alla
libertà, a cui quel popolo non ha mai abdicato.
Oggi a sopravvivere, però, su quel lembo di terra, il più martoriato della Palestina, la striscia
di Gaza, sono morte e distruzione, padrone più di chi le agisce, che di chi le
subisce.
Ma questa è un’altra storia


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