POLITICA e SOCIALE

16 Aprile 2019

Appunti su “La produzione della follia”

Maristella per Lautoradio

Venerdì 12 aprile 2019 ho partecipato all’incontro con Alberto Grohmann, su
“La produzione della follia” .

Vorrei premettere, per chi non lo conosce, che il professore emerito Alberto Grohmann, storico dell’economia e studioso dell’età medioevale, è persona di grande e viva cultura, e che nel 2017 gli è stata negata (dal Consiglio comunale, in votazione segreta) l’iscrizione nell’Albo d’oro dei cittadini che hanno dato lustro alla città, in cui risiede e a cui ha dedicato studi di riconosciuta rilevanza. In perfetta coerenza con le scelte culturali della attuale amministrazione.

Quelle che propongo sono solo alcune riflessioni, non certo una sintesi, scaturite dall’ascolto dell’intervento davvero ampio del professor Grohmann, certamente non nuove per antropologi e per chi conosce il pensiero di Michel Foucault, ma di attualità, particolarmente in connessione con le attuali leggi su sicurezza e migrazione.

Se il folle è chi non si adegua alle richieste della società in cui vive appare evidente che la definizione di follia cambia con il cambiare delle condizioni sociali: in una società con economia in espansione e scarsa popolazione è necessario il lavoro di tutti e non si va tanto per il sottile nell’inclusione sociale.

Ma nei periodi di crisi e di maggiore occupazione del territorio si comincia a selezionare, ed escludere, i devianti, i diversi.

E chi viene identificato come diverso? Sicuramente i malati, poi i “lunatici” e chi si sottrae ai ruoli che la società gli assegna: la prima divisione si incardina sulla sessualità; naturalmente l’accettazione sociale è però garantita a chi, per censo o nobiltà, può permettersi di esibire i suoi gusti senza grandi timori.

Ma per omosessuali a lungo ci sarà condanna, e perfino l’eliminazione fisica: rinchiusi o uccisi; così per le donne, cui è assegnato il compito della riproduzione, di cui è garanzia la passività e l’assenza di piacere sessuale, se no manicomio (lo stigma sociale per l’esercizio del sesso senza riproduzione è diffuso ancor oggi e il manicomio lo è stato fino al ventennio fascista, anche per quelle che si sottraevano semplicemente al compito di accudimento familiare)

Inadeguato è anche lo straniero, a meno che non sia ricco; e anche in questo caso il pensiero corre all’oggi: chi spende e viaggia per diletto è turista, chi fugge dal suo paese e cerca lavoro è migrante, inviso e considerato pericoloso, e riceve un trattamento ben diverso dal viaggiatore che spende denaro.

Deviante è il povero, soprattutto perché gli si imputa di non voler uscire dal suo stato di povertà, che diventa colpa , in una società “operosa” che non può tollerare persone improduttive ( e anche in questo caso ho pensato alla violenza delle dichiarazioni sulle norme “anti-divano” del cosiddetto reddito di cittadinanza, quasi che la disoccupazione non sia un portato del capitalismo).

E l’isolamento si fa segregazione e allontanamento dai “sani” fino ad apprestare la nave dei folli, che li porti altrove depurandone la società – ma quanto somiglia a tenere al largo le navi cariche di migranti, impedendone lo sbarco?-

Non mi soffermo sui trattamenti psichiatrici, vere e proprie torture, del corpo e più recentemente anche farmacologiche, molto interessante la statistica delle cause di internamento nel manicomio di Charenton, che purtroppo non ricordo a memoria.

Vorrei ricordare invece che tra i devianti sono stati inclusi da tutti i regimi i ribelli all’ordine esistente, perfino estendendo la diagnosi di alienazione mentale ai familiari, come nel caso di Giovanni Passannante, che per un attentato, fallito, a Umberto I finì la sua vita in manicomio e il cui cranio rimase esposto fino al 2007, studiati alla ricerca delle caratteristiche del “criminale”

Infine una considerazione del relatore sul liberismo e liberalismo, definito il sistema più coercitivo che esista.

Ho pensato di suggerire qualche lettura:

Michel Foucault- Storia della follia nell’età classsica

Annacarla Valeriano- Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista

Simona Vinci -La prima verità

12 Marzo 2019

RACCOLTA FONDI #ExMattatoioStoriaComune

Due anni fa chiudevamo le porte del centro sociale Ex-Mattatoio, uno spazio comune, collettivo, attraversato e vissuto nel corso del tempo da tantissime persone. Questo, grazie all’ impegno e alla passione di attivisti e attiviste, è riuscito a dare vita ad iniziative, spazi di discussione, momenti di lotta; e lo ha fatto per più di quindici anni diventando un punto di riferimento per chi voleva immaginare un modo diverso di vivere.

Oggi questa lunga esperienza non esiste più, cancellata da una lettera di sfratto. A quasi due anni da quella lettera il centro sociale è ancora lì, vuoto, addormentato, proprio come chi l’ha spedita vorrebbe le nostre vite.

Come se non bastasse il Comune di Perugia invia una lettera di ingiunzione ai danni di un compagno con la quale si pretende il pagamento di quasi quattordici mila euro per il mancato versamento del canone d’affitto degli ultimi anni.
Con questa ingiunzione si riproduce ancora una volta quella pratica dell’indebitamento attraverso la quale non solo non si tiene conto, ma anzi si azzera, tutta la ricchezza sociale prodotta dagli spazi sociali, ma si tende proprio ad imporre un sistema in cui possono esistere solo esperienze allineate e conformi all’ idea dominante di sicurezza e mercificazione.

Pensiamo che le città debbano essere altro, luoghi di incontri meticci, di libertà, in cui poter sperimentare pratiche di autorganizzazione e democrazia. E siamo sempre disposti a lottare per ottene.

#ExMattatoioStoriaComune  

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22 Giugno 2018

OLTRE LE SBARRE

Paradossalmente il carcere dovrebbe essere il luogo più sicuro, eppure sempre più spesso c’è chi in carcere ci muore. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e molti altri saranno uccisi in carcere, nella maggior parte dei casi pestati nelle proprie celle, là dove non sarebbero dovuti  neanche stare.

Questi non sono casi isolati. Le testimonianze di violenze, abusi, situazioni degradanti ormai sono all’ordine del giorno.

Era il 14 ottobre 2007 quando Aldo Bianzino moriva nel carcere di Perugia, 48 ore dopo essere stato arrestato insieme a sua moglie per possesso di alcune piante di marijuana nella loro abitazione a Pietralunga, nelle campagne umbre.

Ufficialmente Aldo muore per emorragia cerebrale; in realtà l’autopsia riscontra sul corpo quattro ematomi cerebrali, fegato e milza danneggiati, due costole fratturate.

Di carcere si muore.
Dieci anni dopo non è ancora emersa la verità; Rudra Bianzino, il figlio di Aldo, con un appello chiede la riapertura delle indagini, cercando una volta per tutte giustizia. (1)

Il carcere dovrebbe essere uno strumento finalizzato alla rieducazione del condannato, così si scrive sui testi scolastici, ma nella realtà non è altro che una bolla che alimenta quel senso di isolamento ed esclusione sociale che nella maggior parte dei casi lo porterà a compiere gli stessi gesti: “[il carcere] non produce, dunque, l’effetto di ridurre il tasso generale di criminalità ma consegue il risultato opposto: innalzarlo ulteriormente, affinando le capacità delinquenziali dei detenuti, insediandoli più profondamente nel tessuto dell’illegalità e negando loro ogni alternativa di vita”. (2)

Le morti prima citate non sono frutto di errori, negligenza o che altro, ma sono la logica e perversa conseguenza di un attitudine che pervade l’intero sistema, che considera i detenuti reietti, scarti della società.

Questa logica prima ancora che tra le mura e le sbarre delle celle, si sviluppa all’interno della società: chiunque non è conforme alle regole imposte, qualunque esse siano, è automaticamente messo al bando, prima ancora che fisicamente, socialmente: si sviluppa così un odio sociale che pervade il singolo già colpito dall’isolamento e dall’esclusione:

“il carcere è nato, più che come sanzione, come pulizia della società dai suoi scarti: poveri, vagabondi, mendicanti, sbandati, irregolari di ogni genere, da offrire in sacrificio all’ordine sociale”. (3)

A dettare le regole è il potere costituito, il potere dei più (più ricchi, più forti, ecc.), appunto “l’ordine sociale”, che indica e indirizza cosa è moralmente (e di conseguenza legalmente) accettabile: così chi occupa una casa perchè una casa non ce l’ha, chi si oppone alle devastazioni ambientali e del territorio, chi scappa da guerre, fame e sfruttamento, è semplicemente un criminale.

È chiaro che il carcere non è altro che uno strumento (ormai anche in tal senso, se vogliamo, arcaico rispetto agli strumenti di sorveglianza e repressione diffusi) di disciplinamento e controllo.

Il carcere va, perciò, abolito, nell’interesse della “sicurezza dei cittadini” (come appunto la proposta di Manconi, Anastasia, Calderone, Resta) ma anche, e soprattutto, come forma di riappropriazione delle vite rispetto al comando e alle costrizioni morali e fisiche imposte dall’alto.

Passo che però si scontra sistematicamente con il progressivo spostamento a destra delle istituzioni che attraverso la retorica (questa si) securitaria, legittima e giustifica la criminalizzazione della povertà, della diversità ecc.; si pensi alla recente legge Minniti-Orlando su sicurezza e decoro, oppure agli interventi di questi giorni di stampo dichiaratamente razzista ordinati dal neo ministro degli interni Salvini.

Di questi temi parleremo durante la puntata in diretta da Sherwood Festival con contributi di Stefano Anastasia (Presidente onorario dell’associazione Antigone, Garante dei detenuti per le regioni Umbria e Lazio, coautore del libro “Abolire il carcere”, Chiarelettere 2015) e Rossella di ACAD  (Associazione Contro gli Abusi in Divisa).

(1): Appello AVAAZ.ORG 

(2): Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, Abolire il carcere, Milano, 2015 (pag. 7)

(3): Gustavo Zagrebelsky, Abolire il Carcere, postfazione (pag. 106)

#lautoradio #altrefrequenze

14 Giugno 2018

CON LA RESISTENZA DI CHI LOTTA CONTRO IL TERRORISMO DEGLI STATI

Sabato 16 giugno (Perugia, piazza Grimana) si terra` un presidio di solidarieta` con la resistenza dei  popoli curdo e palestinese che continuano a combattere e resistere contro il terrorismo degli stati turco e israeliano.

Vi invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio!  

CON LA RESISTENZA DI CHI LOTTA CONTRO IL TERRORISMO DEGLI STATI

Il presidente dello Stato turco Erdogan nel gennaio 2018 ha dato il via ad una efferata operazione militare denominata “ramoscello d’ulivo” contro il cantone di Afrin, nel nord della Siria, area a maggioranza curda fino a quel momento amministrata da un auto-governo democratico, che garantiva la convivenza pacifica tra diversi gruppi etnici, e nella quale venivano accolte centinaia di migliaia di profughi della guerra in Siria.
L’invasione condotta dall’esercito turco, che vanta dotazioni del gruppo italiano Leonardo-Finmeccanica, coadiuvato da vari gruppi della jihad islamica, e col beneplacito di USA, Unione Europea e Russia, ha già prodotto una catastrofe umanitaria di dimensioni immani e sta favorendo l’instaurazione di un regime politico reazionario islamista.
Ma lo Stato italiano e l’Unione europea considerano terrorista il PKK, organizzazione di cui sono emanazioni JPG e YPG, le milizie curde che resistono contro l’invasione turca.

Ormai da settimane i media mainstream parlano di scontri sulla striscia di Gaza. In realtà uno degli eserciti più forti del mondo – quello dello Stato sionista del primo ministro Netanyahu – impegnato da anni nella colonizzazione della Palestina, sta reprimendo le manifestazioni degli abitanti contro la loro condizione di prigionieri del più grande carcere a cielo aperto della terra, vero e proprio campo di sperimentazione di un’industria militare che vende armamenti ed apparati di sicurezza ad eserciti e polizie di tutto il pianeta.
I colpi dei cecchini israeliani hanno già fatto decine di morti e varie migliaia di feriti tra civili inermi, molti dei quali rimarranno invalidi a vita.
Quest’anno ricorrono 70 anni dalla fondazione di Israele, entità statale che basa la propria legittimità solamente sulla pulizia etnica e sull’esproprio continuo di terre ai danni dei nativi palestinesi, ma nello Stato italiano la ricorrenza è stata celebrata simbolicamente con la partenza del Giro d’Italia dalle terre occupate.

Le scelte economiche e di politica internazionale dello Stato italiano sono coerenti con la sua concezione dei rapporti politici interni.
Chi lotta per i propri diritti e chi resiste contro un sistema dove crescono le diseguaglianze è soggetto ad una repressione sempre più ferrea: lavoratori, migranti, militanti e attivisti sono sempre più sottoposti ad arbitrarie misure di controllo e restrizione della libertà (DASPO, fogli di via, arresti).

Non vogliamo accettare questa piega autoritaria e continueremo a sostenere chi resiste contro la violenza del capitale e degli stati.
I terroristi sono lo Stato turco, lo Stato israeliano, lo Stato italiano e i loro complici; siamo solidali con tutti coloro che resistono contro la loro violenza!

26 Maggio 2018

Erdogan terrorista – Riesame annulla sequestro striscione

Riprendiamo dal Circolo Island:

Erdogan è un terrorista, ora possiamo dirlo senza rischiare ulteriori sanzioni. E la Polizia italiana, tanto solerte nel difendere il suo buon nome, dovrà rassegnarsi all’idea che denunciare pubblicamente il genocidio in corso ad Afrin non è ancora reato.
È quanto emerge dall’ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame ha annullato il sequestro dello striscione esposto durante la partita di pallavolo Ankara-Perugia il 21 Marzo da nove attiviste/i colpite/i da DASPO.
Oltre ad evidenziare le varie irregolarità con le quali il Pubblico Ministero aveva convalidato il sequestro e avviato un procedimento penale per diffamazione nei confronti dei nove, il Tribunale ha motivato la decisione descrivendo lo striscione come espressione legittima della critica politica “nel contesto di un conflitto, la cui dimensione e gravità in tema di perdita di vite umane militari e civili […] è ampiamente nota”.
Persino la magistratura è costretta a riconoscere l’illegittimità di provvedimenti arbitrari volti solamente alla repressione del dissenso!
Non ci facciamo illusioni: cade l’accusa di diffamazione, ma resta il procedimento penale avviato dal Pubblico Ministero; cadono tutte le motivazioni per le quali la Questura aveva comminato il DASPO, ma gli attiviste/i coinvolte/i sono ancora soggette/i alle pesanti limitazioni alla libertà che tale provvedimento comporta.
Mentre attendiamo che gli organi dello Stato si convincano che l’ordinamento giuridico italiano non coincide ancora con quello turco, lanciamo a tutti l’appello a non fermare le lotte di fronte ad un apparato di controllo sempre più opprimente.
Soprattutto non smetteremo di denunciare il terrorismo degli Stati e le loro politiche di sterminio e colonizzazione, in particolare quelli dello Stato turco e dello Stato d’Israele, coperti anche dalla complicità e dal sostegno dello Stato Italiano.
Le Daspate/i Daspati il Team Legale

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